uno dei due è l'altro

uno dei due è l'altro

mercoledì 13 settembre 2017

Intellettuali e sinistra - Un intervento



Chiariamoci su Ue, lavoro e democrazia

di Sergio Cesaratto




(The Brood - David Cronenberg)




Pubblichiamo il mio intervento all'incontro di cui ai due post precedenti qui e qui. La registrazione è qui (gli interventi sono distinti per nome, h/t a Radio radicale). Tutte le relazioni sono state interessanti, di grande livello, e convergenti; discussant e soprattutto dibattito piuttosto deludenti (tranne Domenico Moro); i due politici (a parte Fassina) molto deludenti (a parte la presenza fuggitiva). 

Ciò che mi colpisce è che fra il popolo della sinistra del 2% e i politici che esprime da un lato, e l'intellighenzia di sinistra dall'altro vi sia ora uno iato, come testimonia per esempio questa intervista a Streeck. Anna Falcone ha fatto affermazioni del tipo: «Il capitalismo globale non si può contrastare se non con un'operazione di grande democratizzazione globale» e poi «Tutto il mondo deve essere aiutato a vivere laddove le popolazioni decidono liberamente di vivere». Pippo Civati che dopo la costituente italiana (della sinistra) faremo la costituente europea. Dove si va con questo cosmopolitismo? Alcuni interventi hanno sollevato il problema ambientale, che è certamente un'emergenza più che seria. Tuttavia, affermazioni del tipo "torniamo a una economia di sussistenza" o "blocchiamo gli investimenti" non aiutano certo. Così come dare contro lo Stato nazionale in nome di un globalismo astratto. Certamente il problema ambientale è globale, ma è al riguardo necessaria un'analisi geopolitica sugli interessi che si muovono in campo ambientale. Lo Stato nazionale democratico è strumento di azione per costruire la cooperazione  internazionale sulla base del consenso del proprio popolo. La denuncia non basta, serve più analisi, anche da parte degli economisti naturalmente.


* * * *

Il mio carissimo amico Lanfranco Turci dopo aver letto una bozza di questa nota (di cui esclusivamente porto la responsabilità, naturalmente), fra i tanti consigli mi ha esortato a premettere che essa è improntata al pessimismo, sul paese e sulla sinistra: i margini di manovra economica (dunque politica) sono rebus sic stantibus limitati se non inesistenti, le idee poche, le classi dirigenti inadeguate. Tuttavia è solo dalla presa d’atto realistica dello stato di cose presenti che può provenire una reazione. E, comunque, dire le cose come stanno aiuta a smascherare l’affabulazione politica, il girarsi attorno senza contenuti, la politica fatta solo di accordi elettorali che, purtroppo, appare dominare, figlia e madre del vuoto che ci circonda.







1. Un paese esausto

Sempre più in occasioni come questa mi viene infatti in mente Montale, “ Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Il paese è in un passaggio storico drammatico, fra un passato (il secondo dopoguerra) di speranze e riscatto e un futuro che assomiglia a una lenta eutanasia. Storicamente siamo un paese gracile, dalle istituzioni fragili direbbero oggi gli economisti. [1] Istituzioni sia pubbliche che private. 

A una debole società civile dominata da atavici opportunismi e furbizie, più che dal senso di appartenenza a una comunità nazionale, si accompagna senza soluzione di continuità una classe dirigente senza spessore che riflette pienamente il sostrato che la produce. La cultura è scarsa, spesso pre-moderna, burocratica e anti-scientifica. In alcune parti del paese va un po’ meglio, in altre assai peggio con ampie aree dominate dalla malavita organizzata ormai estesa anche al resto (ma abbiamo visto intellettuali di prim’ordine difendere, piccati nel loro orgoglio, la giornata della memoria per la caduta della Rocca di Gaeta in nome di verità storiche del tutto fantasiose). 

L’Euro/pa ci ha esautorato delle leve della politica macro-economica, ci rimane un po’ di politica micro-economica ma, com’è noto, non si fanno le nozze coi fichi secchi, per cui questa politica si riduce alla bassa cucina del togliere un po’ qui per mettere un po’ là, a seconda delle pressioni di volta in volta prevalenti. Se da un lato la politica non sa fare progetti, dall’altro non li può neppure più fare, di qui il suo decadimento (altro che casta!). Ma sono state queste scelte deliberate e su esse torneremo. La concorrenza dei paesi emergenti, specie quelli asiatici, non lascia peraltro più molto spazio a chi non abbia progetti politici per il proprio paese, e le risorse per sostenerli. Il paese è così avviato su se stesso, esausto, privo di senso identitario e partecipativo, sembra tornato a secoli bui.


 


2. Quale riformismo

Se dovessi indicare in sintesi quale sinistra ritengo necessaria per il paese la definirei così: una sinistra che abbia al centro gli interessi del paese, di questo paese  che senza amor nazionale non si dà virtù grande" per citare Leopardi (Zibaldone)riformista nel senso che abbia come asse la piena occupazione e la crescita dei salari, avendo anche a cuore la difesa della competitività del Paese, dell’industria pubblica e di quella privata, di un’istruzione e di una ricerca pubbliche e democratiche ma rigorose – con la centralità dell’intervento pubblico; che coltivi un senso dell’appartenenza a una comunità nazionale da cui ci si senta tutelati e cittadini partecipi superando una tara storica della nostra costituzione materiale; che sostenga una forte autonomia nazionale nella politica estera volta a un più giusto ordine economico internazionale contro le mire bellicose nel Mediterraneo di Francia e Regno Unito in primis (per quello che a un piccolo paese è consentito fare, naturalmente). 

Il mio timore è che però che, dopo le lacerazioni sul tema dell’Europa, quelle sull’immigrazione rappresentino il de profundis per una sinistra di questo tipo. Sul tema dell’Europa gli scorsi anni hanno visto una spaccatura verticale fra tre sinistre: a quella che denunciava la natura imprescindibilmente autoritaria e liberista dell’Euro/pa se ne sono contrapposte due: quella neo-liberista accondiscendente alle politiche europee e quella “leggera”, anelante al più Europa. Ci torneremo su.

L’immigrazione è un tema lacerante per le coscienze di tutti, non solo per alcune anime belle. V’è un dovere irrinunciabile all’aiuto a chi ha intrapreso percorsi di migrazione e alla lotta contro lo sfruttamento dei paesi di provenienza. Ma per molti di noi l’idea dell’accoglienza illimitata e a prescindere è irresponsabile, così come colpisce la mancata consapevolezza che l’immigrazione ha costituito un tassello della devastazione del mercato del lavoro, dei diritti e della estraneità sociale in questi anni (non l’unico e certamente non il principale, ma un elemento importante sì). 

Personalmente non sono disponibile a condividere percorsi irresponsabili che finiscono per alimentare fenomeni reazionari e comunque ci allontanano dal comune sentire e dal malessere popolare. Di fronte a quest’ultimo non possiamo che contrattare uno scambio fra politiche di integrazione per chi è già qui e un rigorosa politica di immigrazione regolare.





3. L’ordo-ulivismo

La grande occasione per l’Italia fu probabilmente quella di mettere a frutto il miracolo economico per modernizzare e democraticizzare il paese. La borghesia non ne fu capace e più volte ha cercato di sedare le rivendicazioni popolari per l’equità distributiva con la violenza, dalla stretta di Carli del 1963 alla strategia della tensione e da ultimo con lo SME e l’euro. 

La sinistra riformista è sempre stata minoritaria. Il mancato riformismo della sinistra italiana ha radici lontane e ben spiegate da Leonardo Paggi (con D’Angelillo, 1986) in quello che rimane, a mio avviso, il più bel volume mai scritto sulla sinistra italiana, non a caso sotto l’influenza dell’interpretazione di Keynes di Pierangelo Garegnani (ma la lezione del riformismo pragmatico di Federico Caffè non è qui estranea). 

La sinistra italiana non ha mai condiviso il Keynesismo riformista, l’idea dunque che elevati salari diretti e indiretti (stato sociale) potessero essere di sostegno alla piena occupazione. E’ infatti sempre stata “monetarista”, ha cioè condiviso l’idea che la crescita dei salari portasse solo inflazione e fosse dunque sovversiva e destabilizzante delle istituzioni democratiche. La svolta dell’EUR del 1978 (maturata gli anni precedenti) nasce da questo, tutto il resto segue. E non parliamo solo di Amendola o di Lama, ma anche di altri eroi della sinistra, da Berlinguer a Trentin (v. Barba e Pivetti 2016).

 Il testimone del “risanamento” fu presto preso dalla sinistra democristiana con Beniamino Andreatta e da circoli borghesi rappresentati da Carlo Azeglio Ciampi (che sostituì Baffi, sfavorevole alla prospettiva europea, dopo la sua violenta defenestrazione) o Guido Carli (una volta che si rese conto che la tolleranza che dovette mostrare come banchiere centrale nella prima metà degli anni ’70 non aveva più ragione d’essere). 

Contenimento del potere sindacale e abbattimento del debito pubblico furono gli assi del duo Andreatta-Ciampi; adesione allo SME e divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia ne furono gli strumenti iniziali. Cuore di questa impostazione era l’importazione della disciplina dall’estero, legandosi al carro monetario tedesco, la politica del “legarsi le mani”. Queste politiche causarono l’indebolimento della competitività esterna, sicché a parità di spesa pubblica - che governi spendaccioni ma ancora sensibili alla tutela di domanda e occupazione badavano bene a non ridurre – si inaridirono le fonti di finanziamento nazionali determinando l’esplosione del debito pubblico e di quello estero (con la crescita della quota del primo detenuta da stranieri). 

La sinistra ulivista fece proprie queste politiche (con la convergenza finale del rigore comunista e di quello andreattiano), assumendo l’Europa di Maastricht come asse. Il disastro dell’euro ne è stato il risultato. In un rinnovato clima di emergenza nazionale, nel 2011 Napolitano d’accordo con potenze straniere e in linea con la tradizione anti-riformista del PCI della “responsabilità nazionale”, piegò definitivamente alla disciplina dell’euro le istanze occupazionali e sociali del Paese. L’emergenza era l’euro, non l’Italia, ma di questo gli anti-riformisti non si avvedevano. Per loro il demonio era il debito pubblico italiano, non l’autoimposto vincolo estero che dai tempi dello SME l’aveva fatto esplodere, così come è esploso di nuovo in seguito alle sciagurate politiche di austerità e al mancato tempestivo intervento della BCE di cui la Germania (e chi non le si è opposto) portano una drammatica responsabilità storica. 





Mi preoccupa l’assenza di un’autocritica profonda negli ambienti della sinistra che hanno pur gestito in prima persona quelle politiche, e questo fa temere che non si abbia ancora grande consapevolezza di queste responsabilità storiche, e mi viene da concludere che in certi circoli l’importante sia scalzare Renzi (che a suo modo qualche rimostranza da moccioso indisciplinato in Europa l’ha manifestata) per sostituirlo con l’Enrico Letta di turno, il figlio politico di Andreatta, colui che scrisse:

«Andreatta capì che l’unico modo per fare le privatizzazioni...e ridurre l’abnorme peso della politica... che ha caratterizzato l’Italia pre-euro era quello di negoziare con Bruxelles... Per farsi imporre dall’Europa il vincolo esterno» e con «saggezza e abilità... Andreatta riuscì allora ad evitare gli ostacoli che la politica frapponeva a quella rivoluzionaria decisione». Letta (2011)

Se non è così, se c’è un ripensamento di quegli anni, venga fuori oggi, e ci si dica come si vuole rimediare. 

Quanto la Germania ha guadagnato alle spalle del nostro paese è sconcio; quello che si prepara con gli accordi Berlino-Parigi è una definitiva cessione di sovranità democratica: [2] mi si dia una risposta ferma e precisa per favore. La lotta ferma sul fronte europeo sarà un asse della sinistra o no? Ci si è resi conto degli errori del passato e in particolare che l’asse europeo ha significato soggiogarsi a un disegno anti-popolare e anti-riformista? La risposta a questo secondo quesito, la consapevolezza delle proprie responsabilità storiche, è più importante della prima a cui è facile replicare: “ma figuriamoci, lotteremo contro i trattati e blà e blà”.

Vogliamo sapere se finalmente si sono fatti i conti col passato e se si è disponibili a dire basta all’europeismo neoliberista - i due termini largamente coincidono. E’ infatti accettabile parlare di europeismo solo in termini culturali e di generale profonda cooperazione, ma solo in termini molto più vaghi con riguardo all’integrazione fiscale e monetaria. Ma vale qui la clausola Paggi: “La consapevolezza della inscindibilità di economia e politica è fortissima nella cultura e nelle politiche neoliberali, mentre è totalmente assente nel linguaggio della sinistra.” [3] 

Le ragioni economiche che dovrebbero essere cardine del pensiero a sinistra sono per lo più incomprese e la politica fatta di mielosi sentimentalismi, o di opportunismi. Insomma, più del no a Renzi vorrei ascoltare da una componente della sinistra un no a Enrico Letta.







4. C’è futuro in Euro/pa?

C’era una strada alternativa all’ordo-ulivismo del papa straniero? Difficile dirlo. Voglio anche dare una dignità politica all’ordo-ulivismo: questo paese è incapace di governarsi, l’unica strada è affidarsi allo straniero (è una vecchia storia, peraltro). Ma lo straniero è furbo e potente. Imporrà a te il liberismo, mentre il suo potente apparato pubblico, mercantilisticamente al servizio dell’industria occuperà anche i tuoi spazi. Naturalmente si potrà essere liberisti alla Ciampi, Andreatta, Letta, Onofri e via cantando e ritenere che l’Europa consista nello scioglimento dei lacci e lacciuoli che frenano gli spiriti vitali dell’economia italiana. E’ legittimo crederlo - e suppongo che in alcune componenti della “sinistra” lo si creda ancora. Ma non lo si camuffi con storie circa la solidarietà europea. Qui siamo alle belle narrazioni - purtroppo diffuse in altre componenti della “sinistra” qui oggi rappresentate. Andatelo a chiedere alla Linke se proporranno all’elettorato tedesco trasferimenti fiscali perequativi in Europa, o il superamento dell’euro. Ccà nisciuno è fesso, tranne la sinistra italiana verrebbe da dire.





5. L’Euro/pa.

L’errore dell’UME è stato di anteporre l’unione monetaria a quella politica? No, l’unione politica (che implica politiche di perequazione dei redditi fra paesi) è impossibile, o meglio, l’unica Europa federale possibile è quella ordoliberista, come aveva ben spiegato Hayek nel 1939 (quella in cui un super-stato si fa garante del libero mercato in tutto il continente). Gli accordi franco-tedeschi per un ulteriore accentramento fiscale vanno in questa direzione. La Germania potrà cambiare? No, non cambierà il suo modello mercantilista. Il mercantilismo tedesco è irrazionale? No, alla luce dell’impostazione Classico-Kaleckiana esso è un modo di tradurre il sovrappiù in profitti attraverso le esportazioni (Cesaratto 2016 cap. 1). 

L’Italia potrà adeguarsi e migliorare? No, alla base del crollo della produttività vi sono anni di depressione della domanda aggregata a causa dell’autoimposto vincolo estero (Bagnai 2012), riforme del mercato del lavoro e allargamento indiscriminato dell’esercito industriale di riserva, mentre non vi sono risorse per istruzione, ricerca e università (e per il benessere sociale e per il sostegno della natalità dei nostri giovani).

L’euro è veramente fallito? Se il suo obiettivo era la disciplina sociale, esso è stato un successo. La teoria economica ha fallito nei confronti dell’euro? No, Meade, Mundell, Flaming, Godley, Kaldor, Feldstein, tutti hanno previsto una tendenza deflazionistica; dopo dieci anni di bonaccia in cui covava una crisi del debito estero della periferia, mercato di sbocco del mercantilismo tedesco (Cesaratto 2016, capp. 5 e 6; 2017), l’euro ha rivelato il suo vero volto deflazionista.

Il ritorno agli Stati nazionali è un arretramento? No, lo Stato nazionale è il terreno della democrazia: Stati senza politica monetaria (dunque fiscale) sono privi di democrazia. Con la globalizzazione e la mobilità di capitale e lavoro si decentra il capitale e l’esercito industriale di riserva si fa mondiale; con l’Europa si delocalizza lo Stato (Cesaratto 2017, Barba e Pivetti 2016).

L’euro ha un futuro? Non lo sappiamo, se crolla sarà per insostenibilità politica, se e quando il ceto medio e gli studenti lo decideranno; ma il caso greco dimostra che resilienza dei popoli è infinita, i migliori se ne vanno, chi rimane si adegua, la natalità crolla, l’immigrazione colma i vuoti. Cosa accadrà se Draghi dovrà dismettere il QE? Reagiremo agli accordi fiscali franco-tedeschi?

Non mi metto a fare proposte programmatiche, quelle seguono la politica. E quella manca.

La sinistra mi sembra divisa fra un’ala risentita che insegue vendette antirenziane e quella che va appresso all’emergenza del momento, ora all’immigrazione (ieri ai movimenti no-global). Del dramma del paese che sta semplicemente morendo materialmente e culturalmente non sembra importare gran che, anzi. Mi sembra che se non si rimette al centro della nostra analisi, delle nostre passioni, il paese, questo paese, non si andrà da nessuna parte. 

Mi sembra di concordare con D’Alema quando dichiara

 “ Il nostro compito è ... di costruire una sinistra democratica e di governo che possa essere un elemento essenziale per la ricostruzione anche culturale dell'Italia.... Oggi dobbiamo fare anche una riflessione autocritica riguardo a una subalternità che molti di noi hanno avuto riguardo all'ottimismo degli anni Novanta”. 

Ma si deve entrare nel merito. Le questioni non sono solo euro ed Europa, ma anche ricostruire il senso di questo paese, il che vuol dire capacità di chiamare a raccolta le sue forze migliori, a ogni livello, intellettuale e popolare. Non lo si farà se ci si occupa d’altro e di altri, lo dico chiaramente, se la salvezza dell’Italia non diventa la nostra unica ossessione. Questo possiamo dire.














Riferimenti
Bagnai, A. (2012), Il tramonto dell’euro, Imprimatur, Reggio Emilia.
Barba, A. e Pivetti, M. (2016) La scomparsa della sinistra, Imprimatur, Reggio Emilia.
Cesaratto, S. (2017a), Sei lezioni di economia – Conoscenze necessarie per capire la crisi, Imprimatur, Reggio Emilia (3a ristampa).
Cesaratto, S. (2017b) Alternative Interpretations of a Stateless Currency crisis, Cambridge Journal of Economics, ( https://doi.org/10.1093/cje/bew065) vol. 41 (4), pp. 977-998, free download.
Di Martino,P. e Vasta, M. (2017) Ricchi per caso. La parabola dello sviluppo economico italiano, Il mulino, Bologna.
Letta, E. La visione larga di Andreatta, in AAVV (2011), L’autonomia della politica monetaria – Il divorzio Tesoro-Banca d’Italia trent’anni dopo, Arel-il Mulino, Roma-Bologna (introduzione di Giuseppe Mussari [sic])
Paggi, L. e D’Angelillo, M. (1986), I comunisti italiani e il riformismo, Einaudi, Torino
http://it.blastingnews.com/politica/2017/09/dalema-pd-verso-il-disastro-vi-spiego-come-ricostruire-una-grande-sinistra-001975817.html

[1] Da ultimo Di Martino e Vasta (2017).
[2] Gli organi di stampa internazionali sono chiari al riguardo (qui e qui)
[3] Sul tema europeo, con Leonardo c’è consenso di metodo, ma purtroppo non di merito.









giovedì 7 settembre 2017

La menzogna necessaria.

di  Vladimiro Giacché*


( I Pugni in Tasca - Marco Bellocchio)



Non si possono confutare delle condizioni di esistenza, ci si può solo liberare di esse
J. Garnault 




1. La menzogna è necessaria

Nietzsche considerava la capacità di sopportare la verità come metro di misura della forza di un individuo (1). Simmetricamente, possiamo considerare il grado di menzogna di cui è permeato il discorso pubblico contemporaneo come un buon indicatore di ciò che non va nelle nostre società. La menzogna in tanto è necessaria in quanto la verità nuoce al mantenimento dell’attuale configurazione della società e dei suoi assetti di potere. Più precisamente, il discorso falso diventa necessario a un duplice riguardo. In primo luogo, in relazione a situazioni razionalmente insostenibili che si vogliono perpetuare.

È quanto accade, ad esempio, quando le strabilianti disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza tra paesi e tra classi sociali vengono attribuite a differenze di merito (di carattere personale, culturale, o addirittura razziale). Allo stesso modo, i disastri ambientali causati dall'indiscriminato sfruttamento capitalistico delle risorse del pianeta sono addebitati a fatalità naturali.

 
In secondo luogo, il discorso falso sorge di necessità – quasi inconsapevolmente - quando ai problemi del mondo si pretende di dare soluzione tenendo fermo proprio ciò che ne rappresenta la causa principale, ossia l’attuale modo di produzione e i suoi limiti. Limiti che sono intrinseci e ineliminabili, e non - come la corrente pubblicistica apologetica vorrebbe farci credere - contingenti e superabili. In questo senso si può ben dire che la produzione della menzogna si radichi nella menzogna della produzione – ossia nell’insostenibilità dell’attuale modo di produzione.






2. La menzogna è naturale

La menzogna, però, non è soltanto necessaria: è anche ovvia, e naturale. La disponibilità alla menzogna (a credervi e a farsene portavoce) è infatti la logica conseguenza di ben determinati meccanismi sociali, trova la sua radice in condizioni oggettive. Esattamente nello stesso senso Marx precisava, parlando del feticismo della merce, come tale «riduzione a cosa» dei rapporti sociali non fosse un errore della percezione soggettiva, bensì un’illusione (una «parvenza») continuamente posta in essere e riprodotta dalla configurazione dei rapporti sociali stessi (2)

Per questo motivo è sbagliato guardare alla menzogna pensando a un complotto: quasi che si trattasse di una congiura ordita dai media o dai contingenti detentori del potere politico. Questo punto di vista è senz’altro corretto in singoli casi, non è però sostenibile in generale. In questo capitolo si seguiranno quindi le tracce della menzogna necessaria e naturale dei nostri tempi, per capire come e dove nasca. Si proverà, insomma, a entrare in quella vera e propria fabbrica del falso che è la nostra società.





3. Il regno della mediazione

Il nostro presente è il regno della mediazione. A cominciare dai rapporti di lavoro. Lavoro interinale, lavoro pseudoindipendente, stages gratuiti, telelavoro: in tutte queste forme, il rapporto reale è nascosto, mistificato, reso occulto e difficile a decifrarsi. In tutti questi casi, il rapporto tra capitale e lavoro, tra proprietario dei mezzi di produzione e salariato, è reso indiretto. I due poli sono allontanati.

Nel caso del telelavoro la distanza è puramente spaziale, quindi - si direbbe - non molto rilevante: e tuttavia con ciò viene ugualmente mistificata, o resa meno immediatamente comprensibile, la natura sociale dell’attività lavorativa, e d’altra parte viene ostacolata la possibilità di organizzazione collettiva dei lavoratori. 

Negli altri casi, la mistificazione è più marcata. Gli stages su un luogo di lavoro sono prestazione lavorativa gratuita mistificata come apprendimento: essi rappresentano in verità una tangente che l’aspirante lavoratore (e già lavoratore in atto, ancorché senza tale qualifica) paga all’impresa per essere assunto, anche soltanto a tempo determinato. 

Il lavoro pseudoindipendente è incarnato dai «collaboratori esterni» che svolgono in verità lavoro in tutto e per tutto dipendente, ma sono catalogati e considerati (dalla legge, dalle statistiche e dal fisco, e non di rado anche da se stessi) come lavoratori autonomi (3)

Infine, il lavoro interinale. Qui la mediazione si dispiega in tutta la sua potenza mistificatrice: io dipendo formalmente da un’agenzia che mi affitta (letteralmente) a un’azienda per un determinato periodo di tempo; la mia controparte formale è pertanto l’agenzia di lavoro interinale, mentre il mio rapporto di dipendenza reale ha luogo con l’impresa per cui temporaneamente lavoro. Qui la mediazione, ovvero la moltiplicazione dei passaggi nel rapporto, conduce a un vero e proprio qui prò quo: il padrone per me non è il padrone in sé. La mediazione quindi mistifica e rende opachi - quando non invisibili – i rapporti reali, ponendo perciò in discussione la stessa possibilità del conflitto. Menzogna e ignoranza sono i battistrada dell’impotenza e dell’inazione.





4. Stati di separazione progressiva

La mediazione connota anche il rapporto tra il lavoro del singolo individuo e il suo prodotto, tra l’attività lavorativa e i suoi effetti. È la stessa divisione del lavoro, e la parcellizzazione sempre più spinta delle attività lavorative, che rende impossibile per il singolo - con l’eccezione forse di poche funzioni di carattere direttivo e manageriale - percepire l’importanza del proprio contributo al prodotto finito e anche solo conoscere il contesto della propria attività. La possibilità di intendere il funzionamento del sistema è sempre più remota. La conoscenza dei meccanismi della produzione è sempre più sapere iniziatico, appannaggio di ristrette cerchie di specialisti, e anch’esso - del resto - sempre più parcellizzato. 

Ciò che oggettivamente possiamo considerare come «mediazione», dal punto di vista del soggetto è vissuto come «separazione». «Con la separazione generalizzata del lavoratore e del suo prodotto» - scrive Debord, rifacendosi al giovane Marx - «si perde ogni punto di vista unitario sull’attività compiuta, come ogni comunicazione personale diretta tra produttori» (4)

Questa separazione ha alla sua origine la separazione del lavoratore dai mezzi di produzione. È questa la separazione fondamentale. Ma non è l’unica. Pensiamo alla separazione dei consumatori dalle fonti di produzione di ciò che consumano, a cominciare dagli alimenti. Negli Stati Uniti d’America mezzo chilo di cibo viaggia in media per oltre duemila chilometri prima di arrivare sulla tavola di chi lo mangerà (5)

Tale separazione, oltre a essere in molti casi puramente irrazionale (pensiamo alle centinaia di chilometri compiuti dalle acque minerali, e al costo ecologicamente insostenibile del loro trasporto), ha per conseguenza l’ignoranza e l’indifferenza nei confronti delle condizioni di produzione dei cibi stessi. Quante persone in Europa si interrogano sullo sfruttamento, poniamo, dei contadini del Centro America che lavorano nelle piantagioni di banane (6)?

Ma pensiamo anche alla separazione tra azione e suo effetto, ad esempio in campo bellico. In questo caso la separazione è immediatamente astrazione. Più precisamente: cattiva astrazione.





5. La cattiva astrazione

«È ormai un luogo comune massmediale che stia prendendo piede un nuovo tipo di guerra: una guerra ad alta tecnologia, in cui le missioni vengono compiute tramite bombardamenti di precisione... Le antiche concezioni di combattimento corpo a corpo, di coraggio, eccetera, stanno diventando obsolete». 

Così osserva Zizek, che prosegue: 

«Si dovrebbe notare l’omologia strutturale tra questa nuova guerra a distanza in cui il “soldato” (uno specialista di computer) preme dei bottoni a centinaia di chilometri di distanza dall’obiettivo, e le decisioni dei gruppi dirigenti che influenzano milioni di persone (gli esperti del Fondo monetario, i regolamenti dell’Organizzazione mondiale del commercio, i cartelli delle multinazionali che decidono le necessarie“ristrutturazioni”): in entrambi i casi l’astrazione viene iscritta direttamente nella situazione “reale”. Si prendono decisioni che influenzeranno migliaia di persone, a volte provocando terribile scompiglio e confusione, ma il collegamento tra queste decisioni “strutturali” e la dolorosa realtà di milioni di esseri umani viene rescisso, dato che gli “esperti” sono incapaci di immaginarne le conseguenze, perché misurano gli effetti delle loro decisioni in termini esclusivamente astratti (un paese infatti può essere “finanziariamente sano” anche se milioni di persone vi muoiono di fame)» (7)

In entrambi i casi citati, è precisamente la lontananza della causa dagli effetti che rende possibile l’astrazione. Da questa astrazione conseguono la «naturale» indifferenza nei confronti delle vittime – gli innumerevoli militi e civili ignoti - e in definitiva quell’«uccisione anonima senza pietà» in cui giustamente Zizek ravvisa «il doppio osceno dell’astratto rifiuto umanitario della violenza» di cui la nostra epoca ama ammantarsi (8)

Questo ci aiuta tra l’altro a capire come la retorica, oggi assai in voga, contro il «fanatico odio assassino» dei «terroristi» («islamici» o di altro tipo) sia due volte menzognera. Una prima volta in quanto, riducendo il nemico a bestia irrazionale (secondo uno dei più ricorrenti cliché della propaganda bellica di tutti i tempi), ci impedisce di scorgere le motivazioni razionali del suo agire; restano esemplari, a tale riguardo, i tentativi del governo di Blair di sottacere le motivazioni dell’attentato alla metropolitana di Londra del luglio 2005, riconducendolo a semplice «odio fanatico» - tentativi poi clamorosamente sconfessati dal contenuto dei nastri lasciati dai terroristi, in cui era espresso a chiare lettere il motivo del loro gesto: la partecipazione inglese alla guerra irachena. Una seconda volta in quanto tale retorica tende a porre in cima alla ideale hit parade delle azioni esecrande quelle compiute in preda all’odio. Laddove il discorso, probabilmente, andrebbe addirittura rovesciato: non soltanto è incommensurabilmente maggiore il numero di morti causati da assassinii a sangue freddo, da operazioni militari «di routine»; ma questi assassinii andrebbero valutati più severamente proprio in quanto nella loro motivazione non si trovano forti passioni e neppure saldi convincimenti, ma piccoli interessi personali o anche soltanto l’obbediente adempimento degli ordini assegnati. 





Da questo punto di vista, i «commoventi» resoconti sul marine morto a Baghdad che si era arruolato per poter pagare il mutuo della casa sono in verità – per chi li sappia leggere - una denuncia efficace della barbarie contemporanea; al pari del più anonimo (e giornalisticamente meno attraente) pilota di F16 che sgancia la sua bomba su un centro abitato o dell’ingegnere che comanda a distanza un drone che incenerisce un villaggio – semplicemente perché è stato ordinato loro di fare così. 

Zelo, disciplina, organizzazione scientifica del lavoro. È proprio la migliore letteratura sulla tragedia nazista ad averci insegnato il ruolo centrale svolto dall’obbedienza burocratica nella macchina dello sterminio. Per Adorno la vera e terribile novità rappresentata dai campi di sterminio consiste per l’appunto nell’«assassinio burocratico di milioni di persone». La stessa Arendt, che ne Le origini del totalitarismo aveva attribuito la massima importanza alle «masse fanatizzate», di fronte a uno dei principali responsabili dello sterminio degli Ebrei, Adolf Eichmann, dovette ricredersi e correggere il tiro: ponendo al centro della propria attenzione non più il fanatismo, bensì la mentalità gregaria, l’ottusità, la mancanza di idee e la «mancanza di immaginazione» dell’assassino che le stava di fronte (9). Ossia, appunto, la sua capacità di astrazione e la sua concreta disponibilità ad astrarre dalle conseguenze delle proprie azioni.

È importante notare che in questo caso la capacità di astrazione coincide con l'incapacità di comprendere: in questo senso è corretto affermare, con la Arendt, che Eichmann «non capì mai cosa stava facendo». Ma 

«il guaio del caso Eichmann era che di uomini come lui ce n'erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali. Dal punto di vista delle nostre istituzioni giuridiche e dei nostri canoni etici, questa normalità è più spaventosa di tutte le atrocità messe insieme, poiché implica... che questo nuovo tipo di criminale, realmente hostis generis humani, commette i suoi crimini in circostanze che quasi gli impediscono di accorgersi o di sentire che agisce male» (10).

Ovviamente, quanto sopra non impedì al tribunale di Gerusalemme di condannare Eichmann

«nella sentenza la Corte riconobbe naturalmente che certi crimini possono essere commessi solo da una burocrazia gigantesca che gode il pieno appoggio del governo. Ma nella misura in cui si tratta di crimini... tutte le rotelle del macchinario, anche le più insignificanti, automaticamente in tribunale si ritrasformano in esecutori, cioè in esseri umani». Resta il fatto che «per sua natura ogni regime totalitario e forse ogni burocrazia tende a trasformare gli uomini in funzionari e in semplici rotelle dell’apparato amministrativo» (11).
A quasi mezzo secolo da quando furono scritte, queste parole non hanno perso nulla del loro inquietante valore di verità: la cattiva astrazione continua infatti, giorno dopo giorno, a mietere le sue vittime.





Note
1). F. Nietzsche, Frammenti postumi 1884-1885, tr. it. Adelphi, Milano 1975, p. 216; Frammenti postumi 1887- 1888, tr. it. Adelphi, Milano 1979 2, p. 106.
2). K. Marx, Il Capitale, libro primo, 1867, sez. I.cap. 1, tr. it. Editori Riuniti, Roma 1968, 1980 5, p. 106.
3). Si veda in proposito M. Prospero, Il corpo che lavora, «il manifesto», 26 maggio 2005.
4). G. Debord, La società dello spettacolo, cit., § 26, p. 61.
5). K. Lasn, Culture Jam, cit., p. 251.
6). Le condizioni di lavoro presso la multinazionale Usa Dole, ad esempio, sono tali da aver suscitato l’atto di accusa di qualcosa come 76 organizzazioni non governative: vedi Ein Fruchtkonzemgerät unter Druck, «Frankfurter Allgemeine Zeitung», 2 gennaio 2007.
7). S. Zizek, Benvenuti nel deserto del reale, cit., p. 41-2. M. Dinucci, Uccidere col joystick manovrato a 12 mila chilometri dal bersaglio, «il manifesto», 13 luglio 2008.
8). S. Zizek, Iraq, cit., p. 129.
9). Th. Adorno, Dialettica negativa, 1966, tr. it. Einaudi, Torino 1970, pp. 326-7. H. Arendt, La banalità del male, cit., pp. 282,40,290.
10). H. Arendt, ivi, pp. 290 e 282. Vedi anche S. Zizek, Credere, 2001; tr. it., Meltemi, Roma 2005, p. 96. Sulla «normalità» dei nazisti esiste ormai una folta letteratura: si vedano tra gli altri W. Sheridan Allen, Come si diventa nazisti. Storia di una piccola città 1930-1935, Einaudi, Torino 1968, e C. R. Browning, Uomini comuni. Polizia tedesca e soluzione finale in Polonia, Einaudi, Torino 1995.
11. H. Arendt, La banalità del male, cit., pp. 291-2, corsivi miei.

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*Tratto da  "La fabbrica del falso - Strategie della menzogna nella politica contemporanea"
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