uno dei due è l'altro

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mercoledì 9 agosto 2017

Confessioni di un teppista ( Sergej Aleksandrovič Esenin)



Isadora Duncan e Sergej Esenin





Da ragazzo mi innamoravo di tutto, anche delle zanzare (De Andrè), ma mi innamoravo soprattutto delle poesie. Tra le tante, ricordo, questa mi appassionò tantissimo. Lo spirito ribelle e ardito dell'adolescenza si univa a immagini vivide di una terra, di una natura magica e sconfinata in cui gli alberi, gli stagni, e ciascun altro elemento della natura possedeva un'anima.

Ma in essa sentivo soprattutto il respiro profondo degli uomini che nella Grande Madre Russia coltivavano la terra con gesti e ritmi millenari. Certo allora il sapore aspro e dolce del testo si nutriva molto del mio giovane idealismo, che ora è scomparso. Ma naturalmente il ricordo permane e con esso il piacere della lettura di un testo leggendario.




Sergej Esenin 1921



Non tutti son capaci di cantare e non a tutti è dato di cadere come una mela, verso i piedi altrui.

E’ questa la più grande confessione che mai teppista possa confidarvi.

Io porto di mia voglia spettinata la testa, lume a petrolio sopra le mie spalle. Mi piace nella tenebra schiarire lo spoglio autunno delle anime vostre; e piace a me che mi volino contro i sassi dell’ingiuria, grandine di eruttante temporale. Solo più forte stringo fra le mani l’ondulata mia bolla di capelli.

E’ benefico allora ricordare il rauco ontano e l’erbeggiante stagno, e che mi vivono da qualche parte padre e madre, infischiandosi del tutto dei miei versi, e che loro son caro come il campo e la carne, e quella pioggia finache a primavera fa morbido il grano verde. Per ogni grido che voi mi scagliate coi forconi verrebbero a scannarvi. Poveri, poveri miei contadini! Certo non siete diventati belli, e Iddio temete e degli acquitrini le viscere. Capiste almeno che vostro figlio in Russia è fra i poeti il più grande! Non si gelava il cuore a voi per lui, scalzo nelle pozzanghere d’autunno? Adesso va girando egli il cilindro e portando le scarpe di vernice.

Ma vive in lui la primigenia impronta del monello campagnolo. Ad ogni mucca effigiata sopra le insegne di macelleria si inchina da lontano. Ed incontrando in piazza i vetturini ricorda l’odore del letame sui campi, pronto, come uno strascico nuziale, a reggere la coda dei cavalli.

Amo la patria. Amo molto la patria! Pur con la sua tristezza di rugginoso salice. Mi son gradevoli i grugni insudiciati dei porci, e nel silenzio notturno l’argentina voce dei rospi. Teneramente malato di memorie infantili sogno la nebbia e l’umido delle sere d’aprile. Come a scaldarsi al rogo dell’aurora s’è accoccolato l’acero nostro. Ah, salendone i rami quante uova ho rubato dai nidi alle cornacchie! E’ sempre uguale, con la verde cima? E’ come un tempo forte la corteccia?

E tu, diletto, fedele cane pezzato! Stridulo e cieco t’hanno fatto gli anni, e trascinando vai per il cortile la coda penzolante, col fiuto immemore di porte e stalla. Come grata ritorna quella birichinata:quando il tozzo di pane rubacchiatoalla mia mamma, mordevamo a turnosenza ribrezzo alcun l’uno dell’altro.

Sono rimasto lo stesso, con tutto il cuore. Fioriscono gli occhi in viso simili a fiordalisi fra la segala. Stuoie d’oro di versi srotolando, vorrei parlare a voi teneramente.

Buona notte! Buona notte a voi tutti! La falce dell’aurora ha già tinnito fra l’erba del crepuscolo. Voglio stanotte pisciare a dirotto dalla finestra mia sopra la luna!

Azzurra luce, luce così azzurra! In tanto azzurro anche morir non duole. E non mi importa di sembrare un cinico con la lanterna attaccata al sedere! Mio vecchio, buono ed estenuato Pegaso, mi serve proprio il tuo morbido trotto? Io, severo maestro, son venuto a celebrare i topi ed a cantarli. L’agosto del mio capo si versa quale vino di capelli in tempesta.

Ho voglia d’essere la vela gialla verso il paese cui per mare andiamo.



Jeanne Hebuterne




(trad. di G.P. Samonà)








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