uno dei due è l'altro

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mercoledì 17 maggio 2017

Il Blues e la logica del ghetto urbano*



(Billie Holiday)


E’ Vero, bimbo. Io parlo. Io ho. Blues. Steamshovel Blues.
Blues. Io ho. Più Blues di quelli per i quali tu puoi dimenare le chiappe. Kierkegaard Blues, eccoli qui, ragazzo, un sussulto e una Contorsione. Ho persino il Blues del giornale. O, completamente folle, il Blues del Blues. Niente mi sfugge. Tutti questi Blues sono cose nelle quali ti imbatterai. Io ho soltanto visioni e parole e ombre. lo ho la tua visione nelle mie dita. Qui è tutto ciò che tu pensi. E fuori di questa tenda, il resto della tua vita.”(1)



Lonesome Day Blues**

Con Sartre, un uomo bianco, è
all’ultimo respiro. Noi preghiamo che muoia
prima d’essere ucciso. Non abbiamo
plastico, solo aguzze eroiche lame. Il
rasoio. La nostra frusta su di loro, perché
portate dei coltelli? o informi
blocchi di cuore‘? Perché restate dove loro
possono arrivare?
***
...possa un perduto dio damballah darci salvezza o quiete
contro i ben conosciuti assassini contro i
figli di lui bianchi perduti! Dada,
negro, nichilismo negro, black dada nihilismus.





La logica del ghetto urbano

Avevo una donna, un tempo, che abitava sulla collina,
Avevo una donna, un tempo, che abitava sulla collina,
Impazziva per me perché lavoravo all’acciaieria di Chicago.
                                                                                                                                     Peetie Wheatstraw



Una vasta serie di motivazioni, non solo storico-economiche, ma anche di carattere psicologico, si trovava a monte del fenomeno migratorio delle comunità nere del Sud verso le metropoli del Nord, quale andò verificandosi fra il 1910 e il 1920, dopo che per secoli il Sud aveva rappresentato il centro rurale più consistente entro cui collocare un consapevole stato di degradazione umana. 

E certo che sul fenomeno ha influito notevolmente il processo di trasformazione degli USA da paese artigiano in paese industrializzato, ed è anche vero che, almeno alle apparenze, andava realizzandosi una parallela opera di pacificazione fra i due fronti, che la guerra civile aveva diviso, ma accanto a tali individuazioni va considerato un contemporaneo riscatto della coscienza che spinge l’afroamericano a riconoscere nelle grandi città quella terra promessa che il vecchio e decrepito Sud, con tutte le sue secolari anomalie persecutorie, non poteva più configurare. 

Quando Leroi Jones parla del Nord come di un "nuovo Giordano" sostitutivo di quel Padre-Fiume che per l’afroamericano rappresentava "la scena del delitto", consumato dai bianchi attraverso tutta una densa accumulazione di repressioni morali, civili e materiali, coglie nel segno di una condizione psicologica che va mutando e che troverà almeno all’esterno una nuova connotazione. 

Sovraccarica e ingombra del gran peso dei ricordi di dolore e di pena, di miseria e di morale devastazione, la mente del nero, di fronte al sentore di liberazione, e di guadagno, che il Nord va configurando davanti alla sua coscienza, finisce per marcare i toni del proprio rancore verso la terra del delta, vista ormai come luogo di dannazione, come un infernale paesaggio da dimenticare.



La fuga dai luoghi dove era stato consumato il crimine della schiavitù, e poi della fittizia emancipazione, ebbe inizio appunto all’alba degli Anni Dieci e spinse una massa enorme di neri verso le città di Chicago, Detroit, New York, Filadelfia, alla scoperta di un’America diversa e più umana, individuabile nella pubblicistica del tempo in tre concetti, Lavoro, Casa, Dignità che rappresentavano per gli afroamericani altrettanti motivi di identificazione di se stessi e di liberazione. 

Perde così il Giordano-Mississippi la sua soprannaturale configurazione, e assume la più reale parvenza di area liberatoria entro la quale poter sistemare la forte esigenza di ricostruire quel nucleo comunitario che i campi di fango e di trementina avevano rapidamente dissolto. 

È chiaro che al nodo di tali motivazioni, è possibile individuare tutta una serie di concause che servirono ad accentuare il fenomeno, come ad esempio il desiderio di una maggiore libertà, e magari di poter uscire la sera dopo le dieci, consuetudine proibita in molte città del Sud. Racconta Leroi Jones

“Ci fu qualcuno, come mio padre, che se ne andò dopo una serie di sterili alterchi con le zelanti maschere di vari cinematografi; altri, come mio nonno, per mettersi in affari un po’ più fortunati, perché due drogherie e un’impresa di pompe funebri gli erano state bruciate in Alabama; insomma, le ragioni potevano essere molte, ma comunque il Nord era divenuto sinonimo di una nuova vita, forse più umana.” (2) 




Furono soprattutto le grandi fabbriche del Nord a configurarsi come la materializzazione del sogno accarezzato nelle capanne del Sud e fra i campi di cotone: ma la smentita non tardò molto ad arrivare e si colorò delle fosche tinte di una nuova sopraffazione: 

“Nelle acciaierie molti lavori erano limitati ai bianchi, ma ‘ai forni’ - racconta Paul Oliver - c’era sempre posto per i neri; pochi altri, infatti, avrebbero accettato di lavorare a quel calore quasi insostenibile. I lavoratori dei campi soppesavano bene gli svantaggi prima di allontanarsi dalle loro case; ma le fabbriche di Bessemer e di Gary avevano bisogno di manodopera, e loro partivano.” (3) 

Una condizione umana degradante, come si vede, sulla quale tuttavia agiva come momento alienante e al contempo liberatorio, il senso di gratificazione che proveniva all’afroamericano dall’assunzione di responsabilità mai avute fino ad allora. Sarebbero bastati cinque dollari al giorno, amava dire Mr. Ford, per far muovere un nero da qualunque luogo del Sud e farlo mettere in coda davanti agli uffici di collocamento. Tutti i blues dedicati alla Ford, del resto, testimoniano fino a qual punto il miraggio funzionava per intere comunità vissute per tanto tempo nella più assoluta miseria.

Se Detroit, con la Ford e la prospettiva dei cinque dollari al giorno, rappresentò un richiamo irresistibile per tante masse di afroamericani in fuga verso le regioni del Nord, fu Chicago indubbiamente il maggior punto di riferimento del fenomeno migratorio. In dieci anni, non meno di sessantamila neri si diressero verso la “Black Metropolis” dell’Illinois, alla disperata ricerca di un lavoro, di una responsabilità, di una liberazione. Ma soprattutto di una identificazione in grado di affrancarli definitivamente da quella prigione della nothingness che per anni aveva rappresentato il più drammatico tema dell’ esistenza. 

C’è anche da dire che il fenomeno, pur essendosi accentuato fra gli Anni Dieci e Venti, si era già iniziato prima, all’indomani della guerra civile, e non aveva riguardato soltanto le comunità nere del Sud, ma più vastamente anche popolazioni provenienti dall’Europa, e specialmente dall’Irlanda



Statistiche molto attendibili parlano di una escalation di incredibili proporzioni: nel 1900 Chicago contava 1.698.575 abitanti, con una presenza di trentamila neri; nel 1920, su due milioni e mezzo circa di abitanti, i neri sono già più di centomila, divengono più di duecentomila nel 1930 e nel 1940, su una popolazione di 3.396.808 abitanti, i neri sono 337.000.

 Un processo di massificazione, come si vede, al quale inutilmente i bianchi, anche immigrati, cercarono di porre rimedio opponendosi duramente: in alcuni casi, venivano persino accusati di essere incitati e assoldati da spie tedesche, un luogo comune quest’ultimo molto in voga presso la popolazione razzista della città, secondo il quale i tedeschi si servivano dei neri per sovvertire l’ordine costituito negli USA. Fu, proprio tale circostanza a dar vita a quella “cintura” di sicurezza che prese poi il nome di “ghetto”, ad indicare il recinto entro il quale una comunità umana viene ad essere segregata, con tutti i contraccolpi psico-sociologici che si possono immaginare.

Col passare degli anni, il fenomeno della segregazione nel ghetto urbano assume aspetti sempre più macroscopici e alienanti, a Chicago come a New York, a Pittsburgh come a Cleveland, a Detroit, anche se si deve aggiungere che tale processo di coagulazione entro quartieri e confini ben precisi, determina talune forme di innovazione e di miglioramento nelle strutture sociali delle comunità afroamericane. 

Pur non avendo trovato quella terra promessa che pensavano di incontrare muovendosi dal Sud, i neri immigrati non si trovarono di fronte un muro di ostilità come era accaduto sulle rive del Mississippi, almeno in un primo tempo: essi infatti, all’alba del flusso migratorio, ebbero i loro giornali, i loro circoli ricreativi, le proprie organizzazioni culturali.

 Solo in un secondo tempo la discriminazione si accentuò e cominciò ad assumere gli aspetti esasperanti che sappiamo: e non sembri ciò un paradosso, se si pensa che la popolazione bianca cominciò ad essere impensierita e preoccupata dal dilagare di forme di promiscuità caratterizzate da un buon numero di matrimoni misti e di altre forme di convivenza. 



Il contraccolpo di tale situazione fu l’irrigidimento e un più severo controllo che determinò un accentuarsi della logica del ghetto urbano, cui i neri risposero con tutta una serie di strategie disperate nelle quali l’universo della segregazione razziale finì per assumere un ruolo sempre più drammatico. È vero infatti quanto afferma Gorlier

“La grande, fondamentale differenza tra la condizione negra nel Sud e nel Nord consisteva nel fatto che al Nord il negro poteva essere segregato, respinto in molti lavori pubblici, assalito a tradimento, ma rimaneva in possesso pieno dei suoi diritti politici”; (4) 

ma è anche vero che la realtà del ghetto urbano determina una congerie di fenomeni sociologici e psicologici di notevole entità, che agiranno sui comportamenti e che si rifletteranno poi nei contenuti dei blues nati da tale nuova condizione di vita.

Lo psicologo nero Kenneth B. Clark ha esaminato attentamente le strutture sociopsicologiche del ghetto urbano, ricavandone notazioni di fondo essenziali per comprendere da un canto la strategia del comportamento dell’afroamericano soggetto all’universo della recinzione, dall’altro le ragioni di una scelta tematica come quella del classic blues, in bilico fra una condizione umana subliminare e disperata e quel fondo di nostalgia che sospinge di continuo il blues-singer urbano verso il ricordo del suo fiume e delle terre del Sud che ha dovuto lasciare. 


Jimmy Rushing


Il senso percettivo del distacco fra realtà e sogno opera in modo determinante sulla coscienza del nero che vive nel ghetto, perché la possibilità che gli viene offerta di uscirne quando vuole e di osservare i moduli di vita del bianco provoca in lui una facoltà di ribellione che altrimenti non avrebbe: in tal senso è legittima l’osservazione di Clark secondo cui 

“se il ghetto potesse essere completamente isolato le possibilità di una rivolta sociale diminuirebbero o addirittura scomparirebbero del tutto,” (5) 

poiché il bombardamento a tappeto cui viene sottoposto dai miti della classe media americana agisce su di lui come notazione alienante che altera e deforma l’equilibrio fra il vero e l’immaginario, e quindi fra realtà e sogno: 

 “Gli oppressi non sapranno mai con certezza se il loro fallimento riflette una inferiorità personale o la realtà del colore della pelle.” (6) 

Tale logica coinvolge gli abitanti del South Side di Chicago come quelli di Harlem a New York, e ancora i segregati di Detroit, di Cleveland, Filadelfia: si tratta di un processo ritardato e disgregatore della maturazione che coinvolge soprattutto i giovani e in questo senso l’autobiografia di Malcolm X è molto probante. Ma l’universo di alterazione psicologica non si esaurisce entro tale contesto, bensì finisce per ampliarsi e impegnare altri fantasmi e più drammatiche realtà...


Jimmy Yancey

***

* Tratto da Il Blues e l’America nera di Walter Mauro. Garzanti 1977

** Lonesome Day Blues. Jesse James, voce e piano, Chicago 3 giugno 1936Con questo nome (o pseudonimo) si presentò ad uno studio di incisione della Decca un carcerato probabilmente in libertà provvisoria. Incise quattro brani ( di cui solo tre apparsi) di straordinaria asprezza ed intensità, accompagnati da un pianoforte in vigoroso stile barrelhouse; quindi fu di nuovo inghiottito nell’oscurità. James ha fuso insieme con pregnante originalità strofe della tradizione carceraria con altre che di solito vanno sotto il titolo si Stop ad Listen o di Smokestack Lightning. (nota da Il Blues,  Rurale – Jazzistico – Urbano, di Alessandro Roffeni, Editoriale Sciascia 1978)


note
1 Leroi Jones, The System of Dante’s Hell, New York 1965; trad. it. Il Predicatore Morto.
2 Leroi Jones, Il Popolo del Blues
3 Paul Oliver, Blues Felt This Morning, London 1960.
4 Claudio Gorlier, Storia dei negri degli Stati Uniti
5 Kenneth Clark, Dark Ghetto, cit.
6 ibidem









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