Ugo Borghetta, Mimmo Porcaro
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E’
comprensibile che all’interno di Eurostop si ponga un problema di
identità. I sacrosanti “tre no”, all’Unione europea, all’euro
ed alla Nato, non dicono, ovviamente, nulla di “positivo”: noi
diamo per scontato che essi siano un mezzo per attuare i nostri scopi
generali, e ciò è indiscutibile, ma la presenza di altre forze che,
in un modo o nell’altro, propongono in tutto o in parte gli stessi
“no” ci impone di definire meglio i nostri scopi e i nostri
mezzi. Oltretutto Eurostop si trova, obiettivamente e per scelta, al
centro di una rete di relazioni tra forze eterogenee che
vanno, per intenderci, dall’area dell’antagonismo al
costituzionalismo moderato. La cosa è assolutamente positiva, è un
indizio del fatto che abbiamo individuato problemi reali e avvertiti
da molti: ma anch’essa impone una chiarificazione, alla quale, qui
sotto, cerchiamo di contribuire, alternando spunti politici e
teorici.
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Dal
punto di vista della nostra iniziativa il dato determinante di questa
fase non è tanto il perdurare della crisi economica e nemmeno
l’accentuarsi della deglobalizzazione. Il dato determinante è
costituito dalla divisione delle classi dominanti e dall’inizio
della loro crisi politica: la vicenda Clinton -Trump - Sanders mostra
che le classi dominanti non possono più governare come prima, che si
acuisce decisamente lo scontro tra il capitalismo liberista e quello
protezionista e che nel campo aperto da questo scontro può oggi
aprirsi uno spazio per una nuova alternativa socialista. L’esperienza
di Sanders (per quanti limiti essa possa manifestare) dimostra
l’obiettiva presenza di una tendenza socialista fin nel
cuore della potenza egemone.
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Cosa
significa tutto ciò? Significa che si inaugura un’epoca in cui
possiamo passare all’offensiva. O, meglio, un’epoca in cui alla
lotta di difesa sociale a cui siamo abituati si
possono e devono aggiungere momenti di iniziativa
politica capaci di modificare alcuni rapporti di forza e
creare le condizioni per una nuova mobilitazione popolare. E quindi
finalmente possiamo (e dobbiamo) passare dal mero “conflittismo”
al progetto, dalla propaganda alla politica. Non possiamo più
confidare soltanto nella crescita cumulativa dei conflitti, né
proporre il conflitto stesso come valore in sé, sperando
così di attrarre masse crescenti. Le masse sono sempre in
larga maggioranza inattive dal punto di vista della
protesta sociale visibile (il che non significa che siano inattive
dal punto di vista del pensiero o delle pratiche di resistenza
quotidiane). Le rivoluzioni coincidono con la fine di tale
inattività, cosa che non avviene per amore del conflitto ma per un
misto di disperazione sociale e di speranza in una nuova prospettiva.
Il capitale lavora per la disperazione, noi dobbiamo lavorare per la
speranza e per la prospettiva.
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L’obiettivo
di prospettiva (che si articola inevitabilmente in diversi obiettivi
intermedi) non può essere che una rottura politica e istituzionale
di tipo socialista. Questa affermazione può sembrare
temeraria: dove sono le condizioni del socialismo e dove si trova
un’idea di socialismo adeguata ai tempi? Le condizioni stanno
nell’assenza di una soluzione pacifica e progressiva alla crisi del
capitale, nella divisione delle classi dominanti, nell’apertura
di un’epoca di ridefinizione degli orientamenti
politici analoga (e in parte contraria) a quella successiva
alla fine dell’Urss. Tali condizioni ci costringono a
disegnare un abbozzo di alternativa generale ben
prima che nuove scuole di pensiero socialiste si siano consolidate, e
quindi coi materiali di teoria e di esperienza che
abbiamo attualmente a disposizione. Restando ben
consapevoli che tutto dovrà essere verificato e perfezionato. Al
nostro attivo abbiamo comunque già alcune elaborazioni o intuizioni
importanti, tra cui quelle, pur diverse, di Luciano Vasapollo e di
Emiliano Brancaccio. Qui noi vogliamo solo insistere sul realismo di
una opzione socialista e sulla concreta possibilità che essa possa
essere recepita proprio in Italia.
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Coi
materiali che abbiamo a disposizione (le riflessioni sul socialismo
reale, le esperienze latinoamericane, le indicazioni della lotta di
classe attuale) possiamo lavorare su un’idea di socialismo come
intreccio tra un sistema economico a tre settori e
un sistema politico-istituzionale a due settori. I
settori economici sono quello pubblico/statuale, quello
comunitario/sociale e quello privato: un sistema tanto più è
socialista quanto più i primi due settori prevalgono sul terzo (che
peraltro, realisticamente, non può scomparire) e solo l’esperienza
storica potrà dire quale sarà il peso rispettivo del settore
statale e di quello comunitario/sociale. I due settori
politico-istituzionali sono: a) uno stato che torna ad assumere una
efficace funzione di promozione dell’eguaglianza, ma lo fa
costruendo le politiche in diretto rapporto con gli attori sociali
organizzati; b) un insieme di libere ed autonome associazioni
dei lavoratori e dei cittadini capaci di estendere al
massimo l’autogoverno, e per il resto di imporre esigenze,
co-definire politiche, verificarne l’attuazione e lottare contro
le inevitabili tendenze alla degenerazione presenti
anche nell’apparato statale più democratico.
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Il
carattere effettivamente socialista di un sistema dipende non solo da
una combinazione ottimale dei diversi settori economici e da una
effettiva dialettica tra stato e istituzioni popolari (soprattutto
nelle decisioni di pianificazione), ma anche da due ulteriori
importanti fattori. Prima di tutto l’intero sistema deve tendere
alla progressiva estinzione del lavoro salariato, e quindi deve
gradualmente abolire il carattere di merce del lavoro, il controllo
privatistico sul processo di produzione e sulla gestione della
ricchezza sociale, il legame diretto tra lavoro e reddito. Obiettivi,
questi, che possono essere raggiunto soltanto intrecciando politiche
di piena occupazione e riduzione dell’orario di lavoro, sviluppo di
libere attività sociali, incremento della fruizione di redditi e
servizi non direttamente dipendenti dall’attività lavorativa,
controllo democratico della produzione e dell’allocazione delle
risorse. In secondo luogo il sistema economico non deve più essere
orientato alla massima valorizzazione del capitale e al massimo
sviluppo delle forze produttive, ma alla riproduzione –
ecologicamente equilibrata – di rapporti sociali egualitari
liberamente scelti.
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La
seconda cosa è forse più difficile da farsi della prima, e chiama
in causa il nesso tra socialismo ed internazionalismo. Se
si vuole far sì che l’economia di un paese non sia votata alla
ricerca del massimo profitto, bisogna creare insieme ad altri paesi
zone economico-politiche sufficientemente indipendenti dagli scambi
con l’estero e capaci di limitare quella libera circolazione dei
capitali che è la chiave di volta del potere capitalistico mondiale.
Tutto ciò ha poco a che fare col protezionismo (anche se non lo
esclude), e riguarda piuttosto la regolazione politica degli
scambi, la costruzione di poli economici
cooperativi e l’equilibrio tra di essi in
un mondo multipolare. La realizzazione di progressi in senso
socialista dipende strettamente dalla realizzazione di spazi del
genere: ed è per questo che è necessario dissolvere lo
spazio inevitabilmente gerarchico dell’Unione
europea. E’ molto probabile, ma non è affatto scontato, che sarà
più facile costruire tali spazi con/tra paesi egualmente orientati
in senso socialista. Ma, almeno per una significativa fase iniziale,
è altrettanto probabile che l’internazionalismo del futuro non
sarà un legame tra classi e/o paesi ideologicamente affini, ma una
relazione cooperativa tra soggetti comunque interessati a limitare la
libera circolazione del capitale finanziario e a perseguire politiche
che (a differenza di quelle dell’Unione europea) non siano
finalizzate ad indebolire i territori “esterni” per meglio
sfruttarne i lavoratori.
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Questo
socialismo non piacerà a chi crede di poter raggiungere il comunismo
integrale e lo identifica sostanzialmente con la conquista del
reddito incondizionato sulla base dei rapporti sociali
capitalistici. Né piacerà ai numerosi detrattori dello stato
che replicano, nella loro apologia della spontanea razionalità della
rete, l’apologia liberista del mercato. Piacerà però
ancor meno ai padroni perché presuppone una parziale ma
significativa espropriazione degli espropriatori, ossia
il passaggio (e spesso il ritorno) dei più importanti strumenti
finanziari e produttivi in mano pubblica. Tale socialismo non è una
terza via e non deriva da una attenuazione dell’ipotesi comunista,
ma è un modo di rendere efficace la tendenza al comunismo nelle
condizioni storico-sociali date. Pur non proponendo il collettivismo
assoluto, la pianificazione integrale e la completa eliminazione del
lavoro salariato, esso non può essere attuato senza
significative rotture nei rapporti di potere e nella forma
dello stato, giacché il capitalismo attuale non può accettare
espropriazioni, attenuazioni dello sfruttamento, limitazioni alla
libera circolazione dei capitali, senza resistere e contrattaccare
duramente. Pur non sottovalutando le capacità di metamorfosi del
capitalismo e la momentanea efficacia retorica dei discorsi
simil-socialisti che una parte della sinistra globalista sarà
costretta a fare, l’ipotesi socialista qui abbozzata
è obiettivamente rivoluzionaria e come tale deve
essere pensata e gestita.
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Come
abbiamo già detto, una simile idea di socialismo può diffondersi
anche in Italia, e può rafforzare la lotta di coloro che in Italia
lavorano, perché mostra il nesso esistente trai loro interessi ed
alcune esigenze obiettive dell’intero paese. L’Italia infatti,
con l’ingresso nell’Unione e con lo smantellamento dell’economia
mista che ne è conseguito, è divenuta di fatto, all’interno del
blocco atlantico, un’entità strutturalmente subalterna e
per molti aspetti declinante, subalternità e declino che
sono stati usati dalle nostre classi dominanti per aumentare la
subordinazione dei lavoratori. Contro questa deriva, il rilancio
socialista dell’economia mista rilancia a sua volta sia l’intero
sistema produttivo del paese (compreso il settore delle Pmi, che in
tal modo potrebbe essere adeguatamente razionalizzato) sia la
politica di piena occupazione che è base essenziale di ulteriori
sviluppi della lotta di classe. Sotto l’aspetto istituzionale, poi,
l’affermazione di una efficace e palese dialettica
tra stato e organizzazioni sociali autonome, mentre favorisce il
controllo democratico della pianificazione, riesce anche a
valorizzare il diffuso pluralismo associativo che è una delle più
importanti caratteristiche del paese, evitando che esso si traduca in
lobbismo e in consociativismo. Non si tratta, insomma, di ripetere la
DC, che gestiva privatisticamente le imprese pubbliche, frammentava
il potere decisionale a favore delle lobby e d’altra parte creava
centri informali e quasi occulti di potere. La rottura che dobbiamo
perseguire deve condurre ad uno stato autorevole (i
cui centri decisionali siano ben visibili e quindi criticabili) e ad
una società indipendente (libera da ricatti
consociativi): il che sarebbe quanto di meno liberista, ma anche
quanto di meno democristiano si possa dare.
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Non
solo l’ipotesi socialista, ma anche quella internazionalista si
incontra con esigenze obiettive del paese. Il carattere aperto della
nostra economia, la dipendenza energetica, la (benvenuta) debolezza
militare dell’Italia fanno sì che ogni decisiva trasformazione
politica interna debba essere supportata da una parallela
trasformazione delle relazioni internazionali, ed in particolare,
oggi, dal superamento dell’atlantismo e dell’europeismo
subalterno, e dalla costruzione di una nuova zona economica
cooperativa nelle zone a noi contigue. Le parziali esperienze passate
di cooperazione, che hanno costituito (salvo rarissime eccezioni) una
semplice divergenza tattica all’interno della scelta atlantica,
devono diventare una vera e propria strategia. Una pace giusta, e
quindi stabile, nel Mediterraneo, nel Medioriente e nei Balcani non
né solo un sogno pacifista ed internazionalista, ma un bisogno di
lungo periodo del paese. L’idea di un polo euromediterraneo con
funzioni di equilibrio sociale e geopolitico può divenire la cornice
della nostra azione.
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Se
è possibile intrecciare socialismo e internazionalismo con le
caratteristiche strutturali di un paese, ciò avviene anche
perché proprio in quanto socialisti e
internazionalisti siamo condotti a incontrare il campo della
nazione e della sovranità nazionale come spazio iniziale della
lotta di classe in generale e della lotta socialista in particolare.
La distruzione delle nazioni subalterne o della loro (relativa)
autonomia è stata una delle strategie predilette dell’imperialismo
globalista e delle nazioni che lo hanno gestito (Usa e Germania in
primis): poiché lo spazio globale così costruito si è mostrato
inconciliabile con la democrazia, la riconquista dell’autonomia
nazionale è quindi il punto di partenza di ogni lotta popolare
veramente efficace. In ogni caso, l’imporsi del campo della nazione
è oggi un dato di fatto. Non è un arresto improvviso,
un momentaneo inconveniente della globalizzazione, ma è il
necessario risultato dialettico della globalizzazione stessa:
questa era ed è un processo di gerarchizzazione spaziale e sociale
gestito da alcune nazioni e da alcune classi al fine di meglio
sfruttare i lavoratori delle zone subalterne e meglio acquisirne i
capitali. E’ inevitabile che questo processo generi reazioni che si
addensano, altrettanto inevitabilmente, nei luoghi in cui si può
ricostruire la potenza politica necessaria a contrastare il capitale,
ossia negli stati nazionali.
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Ripetiamolo
e precisiamolo: noi non siamo e non dobbiamo essere né
sovranisti né nazionalisti. Siamo piuttosto socialisti ed
internazionalisti e in quanto tali rivendichiamo la
sovranità come mezzo, e non come scopo, della nostra
azione e lo spazio nazionale come inevitabile punto di
partenza, ma non come punto di arrivo, di quella azione
stessa. Come socialisti dobbiamo ricostruire
l’autonomia politica dei lavoratori, e per farlo abbiamo bisogno di
ricostruire la sovranità, ossia quell’insieme di condizioni
formali e poi sostanziali che fanno sì che possa esistere una
qualunque politica, e fanno sì che la decisione democratica possa
essere efficace. Come internazionalisti sappiamo che
il globalismo è l’esatto contrario dell’internazionalismo in
quanto distrugge quegli spazi delimitati (le
nazioni) che sono gli unici nei quali è possibile, nelle condizioni
attuali, sperimentare effettivamente una democrazia pienamente
efficace, e dai quali è possibile, proprio perché sono spazi
democratici, tentare di costruire rapporti realmente paritari tra
nazioni.
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Per
tutti questi motivi possiamo dire che la riconquista
dell’autonomia di classe e quella dell’autonomia nazionale sono
strettamente intrecciate. Non rivendichiamo quindi una sovranità
senza aggettivi. Sovranità e nazione sono un campo di
battaglia. Non sono uguali per una classe o per l’altra e non
devono essere usate per eludere la lotta di classe. Per noi hanno
senso in quanto sono funzionali al socialismo e
all’internazionalismo. Non basta riferirsi alla sovranità e alla
nazione. E’ importante, è essenziale, ma non basta. Altrettanto
essenziale è dire per conto di quale classe (o
coalizione di classi) si rivendica la sovranità nazionale: non dirlo
equivale a dire che lo si fa per conto di qualche frazione delle
classi dominanti.
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Si
accettino o meno le idee fin qui esposte, è comunque chiaro che la
nostra politica non può essere dedotta linearmente da un’idea di
socialismo (e di capitalismo), ma deve essere definita in rapporto
alla congiuntura concreta della lotta di classe e
delle ideologie che l’accompagnano. Chi sono, concretamente, i
nostri interlocutori, e prima di tutto i nostri interlocutori
sociali? Non si può certo portare a compimento la
costruzione del socialismo senza la partecipazione attiva dei
lavoratori organizzati e della fascia altamente qualificata del
lavoro stesso. Ma, allo stesso tempo, con questi lavoratori non si
può iniziare la lotta per il socialismo
perché, nella congiuntura attuale, essi sono
generalmente alleati della frazione dominante del capitalismo, quella
liberista. La rottura oggi necessaria può essere opera solo o
soprattutto delle fasce medio-inferiori del lavoro e dei
disoccupati, nonché di molte delle figure intermedie tra lavoro
e capitale (piccoli imprenditori, imprese individuali, lavoratori
apparentemente autonomi ma di fatto subalterni, ecc.). Tutti questi
lavoratori sono generalmente dispersi e disgregati, ideologicamente
indifferenti ai legami con la destra o la sinistra, scarsamente
abituati alle prassi tradizionali (e peraltro oggi scarsamente
efficaci) della mediazione sindacale e politica. La lotta o comunque
l’iniziativa di questi lavoratori assume quindi
inevitabilmente forme populiste. Ma non è detto che
queste forme possano avere esclusivamente un contenuto interclassista
o comunque subalterno al capitalismo protezionista. Dipende: e molto
dipende dal lavoro che noi sapremo sviluppare nei
confronti di questo populismo, dalla proposta che metteremo in campo.
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Le
(per ora) disperse masse populiste non possono essere unificate da un
processo di conquista di posizioni sociali sempre più avanzate,
processo che poi sbocchi in una proposta politica
generale. Questo è il modello classico dell’azione del movimento
operaio post ’45 (dalla fabbrica allo stato) e nel nostro caso non
può essere riproposto (nemmeno per le figure più tradizionali del
lavoro). Se il crescente sostegno offerto al M5S insegna qualcosa,
insegna che le masse populiste hanno quantomeno compreso che nulla di
decisivo oggi può essere fatto senza una preliminare
rottura politica con le attuali classi dirigenti.
L’unificazione che noi dobbiamo proporre passa dunque dalla
definizione di un programma che risponda (assai
meglio del M5S) alle esigenze fondamentali dei lavoratori (noi non
dobbiamo presentarci solo coi “tre no”, e i “tre no” devono
essere presentati come strumento per realizzare ben altro) e dalla
proposta di un obiettivo che renda realizzabile la
rottura politica, ossia l’obiettivo di un governo popolare
di attuazione della Costituzione. La definizione di questo
programma in rapporto con un insieme di interlocutori (ed anche con
forze a noi affini operanti in altre nazioni, in modo da
essere fin dall’inizio coordinati con i progetti di altri popoli
che dovessero liberarsi dall’euro) è, insieme alla precisazione
della proposta del governo popolare, uno dei compiti più importanti
che abbiamo di fronte. Non porcelo equivarrebbe a non aver capito
davvero il carattere sistemico della rottura in corso e la
conseguente necessità di dare risposte altrettanto sistemiche.
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Porre
questi problemi di prospettiva ci aiuta ad affrontare meglio i
compiti più immediati. Tutti sappiamo di dover sviluppare iniziativa
politica nei confronti delle forze a noi più vicine, chiarendo il
senso dei “tre no”, convincendo quei compagni che ancora non
riescono a congedarsi completamente dall’europeismo perché
l’avevano immaginato come un progresso verso il socialismo, e
mostrando loro invece il nesso tra il socialismo e la rottura
dell’Unione. Tutti sappiamo che dobbiamo sviluppare iniziativa nei
confronti delle forze costituzionali che, per quanto diverse da noi,
comunque convergono sulla rottura nonché sull’uso redistributivo
che si deve fare della sovranità. Sappiamo anche che dobbiamo
giungere al momento dello scontro elettorale con una posizione
visibile e comprensibile che ci consenta di intervenire sulle
contraddizioni che questo scontro produrrà, e di crescere attraverso
questo intervento. Aggiungiamo che dovremmo sviluppare una
particolare iniziativa anche nei confronti di tutte le organizzazioni
di movimento (sindacati, associazioni di conflitto, centri sociali,
centri di mutualismo popolare) per chiarire la nostra posizione e
spiegare come la loro lotta avrebbe più senso e più possibilità se
avesse di fronte uno stato sovrano, mentre di fronte all’Unione
europea essa o trova muri invalicabili o si perde e si frammenta
nelle maglie della governance. Tutti questi passaggi però
non devono essere intesi semplicemente come crescita lenta e
progressiva della nostra influenza sul nostro campo.
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E’
vero infatti che non dobbiamo ancora conquistare la dimensione minima
per esistere come soggettività politica efficace, e che questo si
può fare, almeno all’inizio, soltanto agendo negli spazi a noi più
vicini. Ma il vero salto, anche dal punto di vista organizzativo,
avverrà soltanto quando riusciremo a farci credibilmente sentire
nell’assai più vasto spazio sociale che non ha la nostra ideologia
e non parla il nostro linguaggio. Soltanto l’inizio della
penetrazione in questo spazio ci consentirà di offrire una credibile
alternativa anche all’evidente crisi della “sinistra di classe”.
Per costruire la nostra piccola egemonia nel piccolo
campo di quel che resta della sinistra “vera”, è necessario
lavorare per la grande egemonia nel grande campo di
una società che, proprio nel momento in cui maggiormente avrebbe
bisogno delle nostre idee migliori, non ci riconosce più.