uno dei due è l'altro

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sabato 27 agosto 2016

Mu (dopo Davis prima di Zappa)


Captain Beefheart & His Magic Band
(Jeff Cotton "Antennae Jimmy Semens" in primo piano)



Il titolo del post (fra parentesi) non riguarda  un eventuale ma fuorviante elenco alfabetico... né tanto meno  un fantomatico quanto delirante (belligerante?) ordine storico/cronologico. Ma  in realtà: malefico e  ansiogeno frutto   di una  crescente e sintomatica autoreferenzialità che non trova più un suo argine: ovvero il fatto evidente che dopo il post musicale su Miles Davis qui presentato e prima di uno su Zappa, che spero seguirà a breve, c'è questo presente (sottostante) sui semisconosciuti Mu. Spero una bella sorpresa , se  li avete sinora ignorati. Giù, proprio in fondo al post, grazie a Isle full of noises, trovate il link per scaricarvi l'album. Saluti.

***


Vlad Tepes
isle full of noises

Jeff Cotton fu chitarrista per Captain Beefheart (Antennae Jimmy Semens il suo nom de plume sotto il tirannico pazzoide); Fankhauser, girovago psichedelico negli anni mirabili, si unì a lui già nel 1964, quando formarono gli Exiles; i due ebbero modo di riunirsi ancora nei primi anni Settanta: il risultato furono i Mu (dal nome del leggendario continente sommerso), gruppo di nessun successo, ma di ottima considerazione postuma.
Le nove tracce di Mu constano di una morbida psichedelia (piuttosto ordinaria se raffrontata ai tempi), animata però, e in modo inconfondibile, dalla chitarra di Cotton (co-autore di quasi tutti i brani) - un Cotton, reduce dalla marchiatura a fuoco avuta nelle micidiali session del Capitano, che si esibisce anche al sassofono.
Un disco minore, ma da ascoltare per catturare i bagliori finali della prima ondata psych americana, e gli ultimi accordi di un grande chitarrista (Cotton si ritirò nel 1975).




***


Matteo Losi
storiadellamusica


      Immaginate una declinazione West Coast delle spinose miniature “beefhartiane”, o la zattera del blues rurale marchiato Charlie Patton alla deriva fra le amnesie “acquatiche” di un David Crosby. O ancora sonorità afro-jazz, pericolosamente in balia di due spiriti “hippie-delici” che scrutano i fondali oceanici in cerca di presunte civiltà estinte. Una musica del genere popolava i miei sogni fin da quando, paffuto pischello, spulciavo ogni vinile avesse anche lontanamente legami con etichette come “psych-folk”, “space-prog” e così via. Ora però l’ho trovata.

L’avevano concepita Merrell Fankhauser e Jeff Cotton – gli hippy di cui sopra – e quasi nessuno se n’era accorto, miseriaccia. Colpa della Era/RTV Records, che non sganciò una lira per la promozione del disco: le uniche gioie concesse ai Mu furono un’inspiegabile quanto fugace apparizione televisiva e un terzo singolo che, altrettanto inspiegabilmente, ricevette una discreta dose di airplay sulle stazioni FM. Snervati da cotanto disinteresse, Fankhauser e i suoi fecero rotta verso le isole Maui, luogo ideale per andare a caccia di Ufo (!) e registrare, fra un avvistamento e l’altro, il secondo album “End Of An Era” (1974). I tempi però erano cambiati, e più che la fine di un’epoca (quella era già finita da un pezzo…) il disco segnò esclusivamente l’epilogo inglorioso di questa misconosciuta band. Ma facciamo un passo indietro, che qui sto correndo troppo…




In primis, Fankhauser (nativo del Kentucky e trapiantato in California nel 1958, all’età di tredici anni) non era certo un novellino, dato che già nei primi ’60s aveva prestato voce e chitarra solista nelle surf-band The Impacts e Merrell & The Exiles. Fu proprio negli Exiles che strinse amicizia con l'allora quattordicenne Jeff Cotton (sì, proprio il futuro slide-guitar player della Magic Band!), il cui apporto nei Mu sarebbe stato a dir poco essenziale. Poi, come tanti, Fankhauser perse la testa per la marijuana, l’LSD e il folk-rock dei Byrds (rigorosamente in quest’ordine) e mise in piedi altri progetti musicali fragili come statuine di stuzzicadenti: i Fapardorkly prima, gli H.M.S. Bounty poi, entrambi collassati dopo pochi singoli e/o album raffazzonati.

Ridomiciliato a Los Angeles, il chitarrista ricontattò Cotton per proporgli di suonare assieme, ma quando se lo trovò di fronte rimase sconcertato: la permanenza nella cerchia (meglio: nella setta) del padre-padrone Don Van Vliet ne aveva minato seriamente la salute fisica e psichica. Si narra che il ribattezzato Antennae Jimmy Semens passasse gran parte del tempo a memorizzare le poesie del Capitano (questi erano gli ordini del “Santone” Don!) o addirittura a “tubare”, seduto su una panchina, con la mano colma di briciole di pane. 

Il povero ragazzo fu persino vittima di una violenta aggressione da parte di un roadie (tre costole fratturate, mica bruscolini!), e proprio questa fu la goccia che fece traboccare il vaso: terminato il decorso ospedaliero, venne infine tolto dalle grinfie della Magic Band e riportato alla realtà. Con Cotton “guarito” dagli effetti del brainwashing e richiamati i due Exiles Larry Willey (basso) e Randy Wimer (batteria), Fankhauser si rese conto, forse per la prima volta nella sua carriera, che tutti i pezzi erano al loro giusto posto. Finalmente poteva lasciare un segno, anche se perituro, sulla sua epoca.




Fin dai primi secondi di “Mu” (Era/RTV Records, 1971, poi ristampato dalla United Artists nel ’74), ci si accorge che questa non è l’ennesima, improvvisata jam-session tutta fumo e niente arrosto che tanto sollazza i nostalgici, ma un’opera pensata, ragionata e “sentita” in ogni sua cellula. Il perfetto e irripetibile punto d’incontro fra art-rock, blues delle radici, folk sognante della “Frisco Bay” e umori jazz di vago sapore “terzomondista”. Un excursus fra prediche pacifiste e spiritualità cosmica alla Sun Ra (il tribalismo “zen” della chilometrica “Eternal Thirst”), futurismo intriso di morbide romanticherie (Blue Form”) e delle accordature aliene di Cotton, il cui stile qui detta legge (e questo basti a smentire ulteriormente le voci che vogliono “Trout Mask Replica” come un parto esclusivo di Beefheart).  

Prendete, ad esempio, i due strumentali “Interlude” e “Too Naked For Demetrius” (entrambi composti interamente dal chitarrista): non pare d’ascoltare una controparte “autunnale” – oserei dire “sentimentale” – di quei flussi sonori gravidi d’instabilità e invenzioni melodiche che hanno reso grande la “Trota”? Il bello è che un po’ tutti i brani del disco vivono di questa inedita alchimia, sia che si tratti di “Nobody Wants To Shine” (i Jefferson Airplane di “Volunteers” educati all’avant-jazz della Magic Band ?) e i suoi due clarinetti ad amoreggiare in sottofondo, o del mefistofelico sermone in dodici battute “Ballad For Brother Lee”. L’africaneggiante “Mumbella Baye Tu La” vede addirittura il fingerpicking di Cotton abbinato a percussioni arabe e ad un contrabbasso accarezzato con l’archetto, tanto per ampliare di qualche migliaia di chilometri i confini geografici dell’isolotto “Mu” e avvicinarlo sempre più al “continente nero”.



La catarsi corale di “The Clouds Went That Way” chiude invece le danze all’insegna della malinconia più ariosa, quella che in alcuni lineamenti combacia con la speranza per il futuro, in altri al rimpianto per un passato di cui si ricerca invano la tangibilità. Al cospetto di quest’ambrosia, tutta litanie vocali e arpeggi estatici, per un attimo sembra proprio di “non riuscire a ricordare il proprio nome” e si finisce cullati dall’oceano in quiete, con lo sguardo fisso al tramonto. Quasi inutile rimarcarne il valore, in un’opera sì complessa ma sorprendentemente accessibile. Un album forte di una scrittura prodigiosa, registrato alla perfezione (pulizia sonora totale) e nobilitato dalla strabiliante prova dei musicisti: basso malleabile, batteria ricca ed inventiva (diverse le strizzatine d’occhio a John French), le già decantate virtù soprannaturali di Cotton e il solismo più tradizionalmente blues-rock di Fankhauser (memorabile il loro duello su “Ain’y No Blues”).

Come si diceva in apertura, il successivo “End Of An Era” fu anche l’ultimo long playing a nome Mu. Dopo il disfacimento della band, Cotton si ritirò dal music business per dedicarsi interamente al cristianesimo, mentre Fankhauser continuò a incidere nuovi brani poi confluiti in “The Maui Album” (1976), uscito per una piccola etichetta hawaiana (sarà poi riedito nel 1988 dalla Subliminal Sounds Of Sweden) e anch’esso ispirato dallo stretto contatto con l’habitat tropicale nel quale il Nostro aveva messo su casa. Del materiale pubblicato negli anni successivi, merita una menzione “Dr. Fankhauser” (una collaborazione dell’86 con John Cipollina dei Quicksilver Messenger Service), anche se la vera attività del guru ormai si esauriva in partecipazioni a show televisivi musicali e concerti in lungo e in largo per gli States.

A tutt’oggi, Fankhauser resta un musicista assai più rinomato per il suo passato surf che per la sua stagione “fricchettona” con i Mu, ed è un peccato. Peccato perché l’unica, rarissima ristampa in digitale del disco qui trattato risale al 1997, anno in cui la Sundazed ha riunito tutto il materiale registrato dalla band in un cofanetto di due cd. Poi il nulla più assoluto. Auguriamoci quindi che chi di dovere prenda a cuore la questione e faccia un favore al mondo intero, ristampando “Mu” con l’artwork originale e a un prezzo più “umano”. Sarebbe un tributo più che doveroso a un disco di quasi ultraterrena bellezza.
Immaginate una declinazione West Coast delle spinose miniature “beefhartiane”, o la zattera del blues rurale marchiato Charlie Patton alla deriva fra le amnesie “acquatiche” di un David Crosby. O ancora sonorità afro-jazz, pericolosamente in balia di due spiriti “hippie-delici” che scrutano i fondali oceanici in cerca di presunte civiltà estinte. Una musica del genere popolava i miei sogni fin da quando, paffuto pischello, spulciavo ogni vinile avesse anche lontanamente legami con etichette come “psych-folk”, “space-prog” e così via. Ora però l’ho trovata.
L’avevano concepita Merrell Fankhauser e Jeff Cotton – gli hippy di cui sopra – e quasi nessuno se n’era accorto, miseriaccia. Colpa della Era/RTV Records, che non sganciò una lira per la promozione del disco: le uniche gioie concesse ai Mu furono un’inspiegabile quanto fugace apparizione televisiva e un terzo singolo che, altrettanto inspiegabilmente, ricevette una discreta dose di airplay sulle stazioni FM. Snervati da cotanto disinteresse, Fankhauser e i suoi fecero rotta verso le isole Maui, luogo ideale per andare a caccia di Ufo (!) e registrare, fra un avvistamento e l’altro, il secondo album “End Of An Era” (1974). I tempi però erano cambiati, e più che la fine di un’epoca (quella era già finita da un pezzo…) il disco segnò esclusivamente l’epilogo inglorioso di questa misconosciuta band. Ma facciamo un passo indietro, che qui sto correndo troppo…
In primis, Fankhauser (nativo del Kentucky e trapiantato in California nel 1958, all’età di tredici anni) non era certo un novellino, dato che già nei primi ’60s aveva prestato voce e chitarra solista nelle surf-band The Impacts e Merrell & The Exiles. Fu proprio negli Exiles che strinse amicizia con l'allora quattordicenne Jeff Cotton (sì, proprio il futuro slide-guitar player della Magic Band!), il cui apporto nei Mu sarebbe stato a dir poco essenziale. Poi, come tanti, Fankhauser perse la testa per la marijuana, l’LSD e il folk-rock dei Byrds (rigorosamente in quest’ordine) e mise in piedi altri progetti musicali fragili come statuine di stuzzicadenti: i Fapardorkly prima, gli H.M.S. Bounty poi, entrambi collassati dopo pochi singoli e/o album raffazzonati.
Ridomiciliato a Los Angeles, il chitarrista ricontattò Cotton per proporgli di suonare assieme, ma quando se lo trovò di fronte rimase sconcertato: la permanenza nella cerchia (meglio: nella setta) del padre-padrone Don Van Vliet ne aveva minato seriamente la salute fisica e psichica. Si narra che il ribattezzato Antennae Jimmy Semens passasse gran parte del tempo a memorizzare le poesie del Capitano (questi erano gli ordini del “Santone” Don!) o addirittura a “tubare”, seduto su una panchina, con la mano colma di briciole di pane. Il povero ragazzo fu persino vittima di una violenta aggressione da parte di un roadie (tre costole fratturate, mica bruscolini!), e proprio questa fu la goccia che fece traboccare il vaso: terminato il decorso ospedaliero, venne infine tolto dalle grinfie della Magic Band e riportato alla realtà. Con Cotton “guarito” dagli effetti del brainwashing e richiamati i due Exiles Larry Willey (basso) e Randy Wimer (batteria), Fankhauser si rese conto, forse per la prima volta nella sua carriera, che tutti i pezzi erano al loro giusto posto. Finalmente poteva lasciare un segno, anche se perituro, sulla sua epoca.
Fin dai primi secondi di “Mu” (Era/RTV Records, 1971, poi ristampato dalla United Artists nel ’74), ci si accorge che questa non è l’ennesima, improvvisata jam-session tutta fumo e niente arrosto che tanto sollazza i nostalgici, ma un’opera pensata, ragionata e “sentita” in ogni sua cellula. Il perfetto e irripetibile punto d’incontro fra art-rock, blues delle radici, folk sognante della “Frisco Bay” e umori jazz di vago sapore “terzomondista”. Un excursus fra prediche pacifiste e spiritualità cosmica alla Sun Ra (il tribalismo “zen” della chilometrica “Eternal Thirst”), futurismo intriso di morbide romanticherie (“Blue Form”) e delle accordature aliene di Cotton, il cui stile qui detta legge (e questo basti a smentire ulteriormente le voci che vogliono “Trout Mask Replica” come un parto esclusivo di Beefheart).  Prendete, ad esempio, i due strumentali “Interlude” e “Too Naked For Demetrius” (entrambi composti interamente dal chitarrista): non pare d’ascoltare una controparte “autunnale” – oserei dire “sentimentale” – di quei flussi sonori gravidi d’instabilità e invenzioni melodiche che hanno reso grande la “Trota”? Il bello è che un po’ tutti i brani del disco vivono di questa inedita alchimia, sia che si tratti di “Nobody Wants To Shine” (i Jefferson Airplane di “Volunteers” educati all’avant-jazz della Magic Band?) e i suoi due clarinetti ad amoreggiare in sottofondo, o del mefistofelico sermone in dodici battute “Ballad For Brother Lee”. L’africaneggiante “Mumbella Baye Tu La” vede addirittura il fingerpicking di Cotton abbinato a percussioni arabe e ad un contrabbasso accarezzato con l’archetto, tanto per ampliare di qualche migliaia di chilometri i confini geografici dell’isolotto “Mu” e avvicinarlo sempre più al “continente nero”.
La catarsi corale di “The Clouds Went That Way” chiude invece le danze all’insegna della malinconia più ariosa, quella che in alcuni lineamenti combacia con la speranza per il futuro, in altri al rimpianto per un passato di cui si ricerca invano la tangibilità. Al cospetto di quest’ambrosia, tutta litanie vocali e arpeggi estatici, per un attimo sembra proprio di “non riuscire a ricordare il proprio nome” e si finisce cullati dall’oceano in quiete, con lo sguardo fisso al tramonto. Quasi inutile rimarcarne il valore, in un’opera sì complessa ma sorprendentemente accessibile. Un album forte di una scrittura prodigiosa, registrato alla perfezione (pulizia sonora totale) e nobilitato dalla strabiliante prova dei musicisti: basso malleabile, batteria ricca ed inventiva (diverse le strizzatine d’occhio a John French), le già decantate virtù soprannaturali di Cotton e il solismo più tradizionalmente blues-rock di Fankhauser (memorabile il loro duello su “Ain’y No Blues”).
Come si diceva in apertura, il successivo “End Of An Era” fu anche l’ultimo long playing a nome Mu. Dopo il disfacimento della band, Cotton si ritirò dal music business per dedicarsi interamente al cristianesimo, mentre Fankhauser continuò a incidere nuovi brani poi confluiti in “The Maui Album” (1976), uscito per una piccola etichetta hawaiana (sarà poi riedito nel 1988 dalla Subliminal Sounds Of Sweden) e anch’esso ispirato dallo stretto contatto con l’habitat tropicale nel quale il Nostro aveva messo su casa. Del materiale pubblicato negli anni successivi, merita una menzione “Dr. Fankhauser” (una collaborazione dell’86 con John Cipollina dei Quicksilver Messenger Service), anche se la vera attività del guru ormai si esauriva in partecipazioni a show televisivi musicali e concerti in lungo e in largo per gli States.
A tutt’oggi, Fankhauser resta un musicista assai più rinomato per il suo passato surf che per la sua stagione “fricchettona” con i Mu, ed è un peccato. Peccato perché l’unica, rarissima ristampa in digitale del disco qui trattato risale al 1997, anno in cui la Sundazed ha riunito tutto il materiale registrato dalla band in un cofanetto di due cd. Poi il nulla più assoluto. Auguriamoci quindi che chi di dovere prenda a cuore la questione e faccia un favore al mondo intero, ristampando “Mu” con l’artwork originale e a un prezzo più “umano”. Sarebbe un tributo più che doveroso a un disco di quasi ultraterrena bellezza.Immaginate una declinazione West Coast delle spinose miniature “beefhartiane”, o la zattera del blues rurale marchiato Charlie Patton alla deriva fra le amnesie “acquatiche” di un David Crosby. O ancora sonorità afro-jazz, pericolosamente in balia di due spiriti “hippie-delici” che scrutano i fondali oceanici in cerca di presunte civiltà estinte. Una musica del genere popolava i miei sogni fin da quando, paffuto pischello, spulciavo ogni vinile avesse anche lontanamente legami con etichette come “psych-folk”, “space-prog” e così via. Ora però l’ho trovata.
L’avevano concepita Merrell Fankhauser e Jeff Cotton – gli hippy di cui sopra – e quasi nessuno se n’era accorto, miseriaccia. Colpa della Era/RTV Records, che non sganciò una lira per la promozione del disco: le uniche gioie concesse ai Mu furono un’inspiegabile quanto fugace apparizione televisiva e un terzo singolo che, altrettanto inspiegabilmente, ricevette una discreta dose di airplay sulle stazioni FM. Snervati da cotanto disinteresse, Fankhauser e i suoi fecero rotta verso le isole Maui, luogo ideale per andare a caccia di Ufo (!) e registrare, fra un avvistamento e l’altro, il secondo album “End Of An Era” (1974). I tempi però erano cambiati, e più che la fine di un’epoca (quella era già finita da un pezzo…) il disco segnò esclusivamente l’epilogo inglorioso di questa misconosciuta band. Ma facciamo un passo indiemu­si­ci­sta assai più ri­no­ma­to per il suo pas­sa­to surf che per la sua sta­gio­ne “fric­chet­to­na” con i Mu, ed è un pec­ca­to. Pec­ca­to per­ché l’u­ni­ca, ra­ris­si­ma ri­stam­pa in di­gi­ta­le del disco qui trat­ta­to ri­sa­le al 1997, anno in cui la Sun­da­zed ha riu­ni­to tutto il ma­te­ria­le re­gi­stra­to dalla band in un co­fa­net­to di due cd. Poi il nulla più as­so­lu­to. Au­gu­ria­mo­ci quin­di che chi di do­ve­re pren­da a cuore la que­stio­ne e fac­cia un fa­vo­re al mondo in­te­ro, ri­stam­pan­do “Mu” con l’art­work ori­gi­na­le e a un prez­zo più “umano”. Sa­reb­be un tri­bu­to più che do­ve­ro­so a un disco di quasi ul­tra­ter­re­na bel­lez­za.tro, che qui sto correndo troppo…
In primis, Fankhauser (nativo del Kentucky e trapiantato in California nel 1958, all’età di tredici anni) non era certo un novellino, dato che già nei primi ’60s aveva prestato voce e chitarra solista nelle surf-band The Impacts e Merrell & The Exiles. Fu proprio negli Exiles che strinse amicizia con l'allora quattordicenne Jeff Cotton (sì, proprio il futuro slide-guitar player della Magic Band!), il cui apporto nei Mu sarebbe stato a dir poco essenziale. Poi, come tanti, Fankhauser perse la testa per la marijuana, l’LSD e il folk-rock dei Byrds (rigorosamente in quest’ordine) e mise in piedi altri progetti musicali fragili come statuine di stuzzicadenti: i Fapardorkly prima, gli H.M.S. Bounty poi, entrambi collassati dopo pochi singoli e/o album raffazzonati.
Ridomiciliato a Los Angeles, il chitarrista ricontattò Cotton per proporgli di suonare assieme, ma quando se lo trovò di fronte rimase sconcertato: la permanenza nella cerchia (meglio: nella setta) del padre-padrone Don Van Vliet ne aveva minato seriamente la salute fisica e psichica. Si narra che il ribattezzato Antennae Jimmy Semens passasse gran parte del tempo a memorizzare le poesie del Capitano (questi erano gli ordini del “Santone” Don!) o addirittura a “tubare”, seduto su una panchina, con la mano colma di briciole di pane. Il povero ragazzo fu persino vittima di una violenta aggressione da parte di un roadie (tre costole fratturate, mica bruscolini!), e proprio questa fu la goccia che fece traboccare il vaso: terminato il decorso ospedaliero, venne infine tolto dalle grinfie della Magic Band e riportato alla realtà. Con Cotton “guarito” dagli effetti del brainwashing e richiamati i due Exiles Larry Willey (basso) e Randy Wimer (batteria), Fankhauser si rese conto, forse per la prima volta nella sua carriera, che tutti i pezzi erano al loro giusto posto. Finalmente poteva lasciare un segno, anche se perituro, sulla sua epoca.
Fin dai primi secondi di “Mu” (Era/RTV Records, 1971, poi ristampato dalla United Artists nel ’74), ci si accorge che questa non è l’ennesima, improvvisata jam-session tutta fumo e niente arrosto che tanto sollazza i nostalgici, ma un’opera pensata, ragionata e “sentita” in ogni sua cellula. Il perfetto e irripetibile punto d’incontro fra art-rock, blues delle radici, folk sognante della “Frisco Bay” e umori jazz di vago sapore “terzomondista”. Un excursus fra prediche pacifiste e spiritualità cosmica alla Sun Ra (il tribalismo “zen” della chilometrica “Eternal Thirst”), futurismo intriso di morbide romanticherie (“Blue Form”) e delle accordature aliene di Cotton, il cui stile qui detta legge (e questo basti a smentire ulteriormente le voci che vogliono “Trout Mask Replica” come un parto esclusivo di Beefheart).  Prendete, ad esempio, i due strumentali “Interlude” e “Too Naked For Demetrius” (entrambi composti interamente dal chitarrista): non pare d’ascoltare una controparte “autunnale” – oserei dire “sentimentale” – di quei flussi sonori gravidi d’instabilità e invenzioni melodiche che hanno reso grande la “Trota”? Il bello è che un po’ tutti i brani del disco vivono di questa inedita alchimia, sia che si tratti di “Nobody Wants To Shine” (i Jefferson Airplane di “Volunteers” educati all’avant-jazz della Magic Band?) e i suoi due clarinetti ad amoreggiare in sottofondo, o del mefistofelico sermone in dodici battute “Ballad For Brother Lee”. L’africaneggiante “Mumbella Baye Tu La” vede addirittura il fingerpicking di Cotton abbinato a percussioni arabe e ad un contrabbasso accarezzato con l’archetto, tanto per ampliare di qualche migliaia di chilometri i confini geografici dell’isolotto “Mu” e avvicinarlo sempre più al “continente nero”.
La catarsi corale di “The Clouds Went That Way” chiude invece le danze all’insegna della malinconia più ariosa, quella che in alcuni lineamenti combacia con la speranza per il futuro, in altri al rimpianto per un passato di cui si ricerca invano la tangibilità. Al cospetto di quest’ambrosia, tutta litanie vocali e arpeggi estatici, per un attimo sembra proprio di “non riuscire a ricordare il proprio nome” e si finisce cullati dall’oceano in quiete, con lo sguardo fisso al tramonto. Quasi inutile rimarcarne il valore, in un’opera sì complessa ma sorprendentemente accessibile. Un album forte di una scrittura prodigiosa, registrato alla perfezione (pulizia sonora totale) e nobilitato dalla strabiliante prova dei musicisti: basso malleabile, batteria ricca ed inventiva (diverse le strizzatine d’occhio a John French), le già decantate virtù soprannaturali di Cotton e il solismo più tradizionalmente blues-rock di Fankhauser (memorabile il loro duello su “Ain’y No Blues”).
Come si diceva in apertura, il successivo “End Of An Era” fu anche l’ultimo long playing a nome Mu. Dopo il disfacimento della band, Cotton si ritirò dal music business per dedicarsi interamente al cristianesimo, mentre Fankhauser continuò a incidere nuovi brani poi confluiti in “The Maui Album” (1976), uscito per una piccola etichetta hawaiana (sarà poi riedito nel 1988 dalla Subliminal Sounds Of Sweden) e anch’esso ispirato dallo stretto contatto con l’habitat tropicale nel quale il Nostro aveva messo su casa. Del materiale pubblicato negli anni successivi, merita una menzione “Dr. Fankhauser” (una collaborazione dell’86 con John Cipollina dei Quicksilver Messenger Service), anche se la vera attività del guru ormai si esauriva in partecipazioni a show televisivi musicali e concerti in lungo e in largo per gli States.
A tutt’oggi, Fankhauser resta un musicista assai più rinomato per il suo passato surf che per la sua stagione “fricchettona” con i Mu, ed è un peccato. Peccato perché l’unica, rarissima ristampa in digitale del disco qui trattato risale al 1997, anno in cui la Sundazed ha riunito tutto il materiale registrato dalla band in un cofanetto di due cd. Poi il nulla più assoluto. Auguriamoci quindi che chi di dovere prenda a cuore la questione e faccia un favore al mondo intero, ristampando “Mu” con l’artwork originale e a un prezzo più “umano”. Sarebbe un tributo più che doveroso a un disco di quasi ultraterrena bellezza.

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qui l'album
altro:
http://www.merrellfankhauser.com/
musicaddiction


Merrell Fankhauser


Immaginate una declinazione West Coast delle spinose miniature “beefhartiane”, o la zattera del blues rurale marchiato Charlie Patton alla deriva fra le amnesie “acquatiche” di un David Crosby. O ancora sonorità afro-jazz, pericolosamente in balia di due spiriti “hippie-delici” che scrutano i fondali oceanici in cerca di presunte civiltà estinte. Una musica del genere popolava i miei sogni fin da quando, paffuto pischello, spulciavo ogni vinile avesse anche lontanamente legami con etichette come “psych-folk”, “space-prog” e così via. Ora però l’ho trovata.
L’avevano concepita Merrell Fankhauser e Jeff Cotton – gli hippy di cui sopra – e quasi nessuno se n’era accorto, miseriaccia. Colpa della Era/RTV Records, che non sganciò una lira per la promozione del disco: le uniche gioie concesse ai Mu furono un’inspiegabile quanto fugace apparizione televisiva e un terzo singolo che, altrettanto inspiegabilmente, ricevette una discreta dose di airplay sulle stazioni FM. Snervati da cotanto disinteresse, Fankhauser e i suoi fecero rotta verso le isole Maui, luogo ideale per andare a caccia di Ufo (!) e registrare, fra un avvistamento e l’altro, il secondo album “End Of An Era” (1974). I tempi però erano cambiati, e più che la fine di un’epoca (quella era già finita da un pezzo…) il disco segnò esclusivamente l’epilogo inglorioso di questa misconosciuta band. Ma facciamo un passo indietro, che qui sto correndo troppo…
In primis, Fankhauser (nativo del Kentucky e trapiantato in California nel 1958, all’età di tredici anni) non era certo un novellino, dato che già nei primi ’60s aveva prestato voce e chitarra solista nelle surf-band The Impacts e Merrell & The Exiles. Fu proprio negli Exiles che strinse amicizia con l'allora quattordicenne Jeff Cotton (sì, proprio il futuro slide-guitar player della Magic Band!), il cui apporto nei Mu sarebbe stato a dir poco essenziale. Poi, come tanti, Fankhauser perse la testa per la marijuana, l’LSD e il folk-rock dei Byrds (rigorosamente in quest’ordine) e mise in piedi altri progetti musicali fragili come statuine di stuzzicadenti: i Fapardorkly prima, gli H.M.S. Bounty poi, entrambi collassati dopo pochi singoli e/o album raffazzonati.
Ridomiciliato a Los Angeles, il chitarrista ricontattò Cotton per proporgli di suonare assieme, ma quando se lo trovò di fronte rimase sconcertato: la permanenza nella cerchia (meglio: nella setta) del padre-padrone Don Van Vliet ne aveva minato seriamente la salute fisica e psichica. Si narra che il ribattezzato Antennae Jimmy Semens passasse gran parte del tempo a memorizzare le poesie del Capitano (questi erano gli ordini del “Santone” Don!) o addirittura a “tubare”, seduto su una panchina, con la mano colma di briciole di pane. Il povero ragazzo fu persino vittima di una violenta aggressione da parte di un roadie (tre costole fratturate, mica bruscolini!), e proprio questa fu la goccia che fece traboccare il vaso: terminato il decorso ospedaliero, venne infine tolto dalle grinfie della Magic Band e riportato alla realtà. Con Cotton “guarito” dagli effetti del brainwashing e richiamati i due Exiles Larry Willey (basso) e Randy Wimer (batteria), Fankhauser si rese conto, forse per la prima volta nella sua carriera, che tutti i pezzi erano al loro giusto posto. Finalmente poteva lasciare un segno, anche se perituro, sulla sua epoca.
Fin dai primi secondi di “Mu” (Era/RTV Records, 1971, poi ristampato dalla United Artists nel ’74), ci si accorge che questa non è l’ennesima, improvvisata jam-session tutta fumo e niente arrosto che tanto sollazza i nostalgici, ma un’opera pensata, ragionata e “sentita” in ogni sua cellula. Il perfetto e irripetibile punto d’incontro fra art-rock, blues delle radici, folk sognante della “Frisco Bay” e umori jazz di vago sapore “terzomondista”. Un excursus fra prediche pacifiste e spiritualità cosmica alla Sun Ra (il tribalismo “zen” della chilometrica “Eternal Thirst”), futurismo intriso di morbide romanticherie (“Blue Form”) e delle accordature aliene di Cotton, il cui stile qui detta legge (e questo basti a smentire ulteriormente le voci che vogliono “Trout Mask Replica” come un parto esclusivo di Beefheart).  Prendete, ad esempio, i due strumentali “Interlude” e “Too Naked For Demetrius” (entrambi composti interamente dal chitarrista): non pare d’ascoltare una controparte “autunnale” – oserei dire “sentimentale” – di quei flussi sonori gravidi d’instabilità e invenzioni melodiche che hanno reso grande la “Trota”? Il bello è che un po’ tutti i brani del disco vivono di questa inedita alchimia, sia che si tratti di “Nobody Wants To Shine” (i Jefferson Airplane di “Volunteers” educati all’avant-jazz della Magic Band?) e i suoi due clarinetti ad amoreggiare in sottofondo, o del mefistofelico sermone in dodici battute “Ballad For Brother Lee”. L’africaneggiante “Mumbella Baye Tu La” vede addirittura il fingerpicking di Cotton abbinato a percussioni arabe e ad un contrabbasso accarezzato con l’archetto, tanto per ampliare di qualche migliaia di chilometri i confini geografici dell’isolotto “Mu” e avvicinarlo sempre più al “continente nero”.
La catarsi corale di “The Clouds Went That Way” chiude invece le danze all’insegna della malinconia più ariosa, quella che in alcuni lineamenti combacia con la speranza per il futuro, in altri al rimpianto per un passato di cui si ricerca invano la tangibilità. Al cospetto di quest’ambrosia, tutta litanie vocali e arpeggi estatici, per un attimo sembra proprio di “non riuscire a ricordare il proprio nome” e si finisce cullati dall’oceano in quiete, con lo sguardo fisso al tramonto. Quasi inutile rimarcarne il valore, in un’opera sì complessa ma sorprendentemente accessibile. Un album forte di una scrittura prodigiosa, registrato alla perfezione (pulizia sonora totale) e nobilitato dalla strabiliante prova dei musicisti: basso malleabile, batteria ricca ed inventiva (diverse le strizzatine d’occhio a John French), le già decantate virtù soprannaturali di Cotton e il solismo più tradizionalmente blues-rock di Fankhauser (memorabile il loro duello su “Ain’y No Blues”).
Come si diceva in apertura, il successivo “End Of An Era” fu anche l’ultimo long playing a nome Mu. Dopo il disfacimento della band, Cotton si ritirò dal music business per dedicarsi interamente al cristianesimo, mentre Fankhauser continuò a incidere nuovi brani poi confluiti in “The Maui Album” (1976), uscito per una piccola etichetta hawaiana (sarà poi riedito nel 1988 dalla Subliminal Sounds Of Sweden) e anch’esso ispirato dallo stretto contatto con l’habitat tropicale nel quale il Nostro aveva messo su casa. Del materiale pubblicato negli anni successivi, merita una menzione “Dr. Fankhauser” (una collaborazione dell’86 con John Cipollina dei Quicksilver Messenger Service), anche se la vera attività del guru ormai si esauriva in partecipazioni a show televisivi musicali e concerti in lungo e in largo per gli States.
A tutt’oggi, Fankhauser resta un musicista assai più rinomato per il suo passato surf che per la sua stagione “fricchettona” con i Mu, ed è un peccato. Peccato perché l’unica, rarissima ristampa in digitale del disco qui trattato risale al 1997, anno in cui la Sundazed ha riunito tutto il materiale registrato dalla band in un cofanetto di due cd. Poi il nulla più assoluto. Auguriamoci quindi che chi di dovere prenda a cuore la questione e faccia un favore al mondo intero, ristampando “Mu” con l’artwork originale e a un prezzo più “umano”. Sarebbe un tributo più che doveroso a un disco di quasi ultraterrena bellezza.

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