uno dei due è l'altro

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martedì 2 agosto 2016

«Mercati» contro democrazia: globalizzazione e attacco alla sovranità statale

Vladimiro  Giacchè
Da "La fabbrica del falso" (2011)


Boris Artzybasheff


Vale la pena di notare che il richiamo all’ordine delle democrazie occidentali da parte della Trilateral, puntualmente ottemperato nei decenni successivi, veniva lanciato negli stessi anni in cui Enrico Berlinguer proponeva all’Urss la «democrazia come valore universale». Un appello che era senz’altro condivisibile come denuncia del clamoroso deficit di democrazia riscontrabile in Urss e nelle altre «democrazie popolari», ma che aveva almeno due limiti: in primo luogo esso dava per scontato che la democrazia elettorale dei paesi occidentali fosse il modello di democrazia; in secondo luogo, presupponeva che l’allargamento degli spazi democratici fosse - a partire dai paesi capitalistici - un fine perseguibile in sé, anche senza che fossero intaccate le strutture economiche del dominio del capitale.




Quello che accadde negli anni Ottanta e Novanta fu la migliore dimostrazione dell’impossibilità di separare questi due piani. In effetti, proprio mentre tutto il mondo occidentale salutava il crollo del comunismo come la «marcia trionfale della democrazia», la liberalizzazione dei movimenti di capitale e merci che passa sotto il nome di «globalizzazione» erodeva le basi su cui era stata costruita la democrazia negli stessi paesi occidentali: a cominciare dalla sovranità statale.

In questo contesto venivano colpiti anche diritti sociali ormai dati per acquisiti. Ma soprattutto saltavano i presupposti su cui era stato costruito nei decenni precedenti il compromesso sociale del welfare state: la forza di contrattazione della classe operaia e la relativa subordinazione agli Stati nazionali delle aziende (in quanto di dimensione prevalentemente nazionale esse stesse).




Entrava quindi in crisi irreversibile quel «compromesso sociale tra interessi d’impresa del capitalismo e classi lavoratrici» che è stato così descritto da Colin Crouch: «in cambio della sopravvivenza del sistema capitalistico e del generale acquietarsi della protesta contro le disuguaglianze da esso prodotte, gli interessi economici impararono ad accettare certi limiti nell’uso discrezionale del potere. La forza politica democratica concentrata a livello dello Stato nazionale fu in grado di garantire il rispetto di questi limiti, in quanto le aziende erano in gran parte subordinate all’autorità degli Stati nazionali».




Tutto questo oggi non esiste più. E il processo di svuotamento della capacità di decisione degli Stati in materia economica è giunto a un punto tale che qualche anno fa persino il presidente della Spd tedesca, un partito certamente tutt’altro che anticapitalista, ha potuto affermare che «le strategie di massimizzazione dei profitti imposte a livello internazionale alla lunga mettono in pericolo la nostra democrazia».




Lo stesso spostamento della sovranità su un piano sovra￾nazionale attraverso istituzioni come l’Unione Europea - che in teoria potrebbe rappresentare una dimensione politica in grado di fronteggiare anche le società multinazionali - ha ulteriormente peggiorato la situazione, sottraendo decisioni fondamentali agli Stati nazionali e trasferendole a un livello in cui - come ha detto il politologo americano Robert Dahl - «le istituzioni democratiche sono sostanzialmente inefficaci». 
Nell’Unione Europea - spiega Dahl«sono formalmente vigenti strutture nominalmente democratiche, come l’elezione diretta e il parlamento. E, tuttavia, gli osservatori concordano nel rilevare il permanere di un gigantesco “deficit democratico’’. 




Le decisioni cruciali vengono prese principalmente attraverso accordi tra le élite politiche e burocratiche. I limiti non sono posti dal processo democratico ma, essenzialmente, da ciò che si riesce a ottenere attraverso i negoziati tra le partine in base alle probabili conseguenze per i mercati nazionali e internazionali. I risultati dipendono dalle transazioni, dalle gerarchie e dai mercati. I processi democratici hanno un ruolo minimo, se si esclude la ratifica di questi risultati»




Il testo di Dahl è uscito nel 1998. Quello stesso anno il presidente della Bundesbank, Tietmeyer, espresse con ammirevole chiarezza la concezione oggi dominante della democrazia. In occasione della definitiva decisione sulla nascita dell’euro (che implicava tra l’altro la perdita di sovranità sulla politica monetaria, da parte degli Stati dell’Unione aderenti alla moneta unica, a favore della Banca centrale europea), egli sottolineò con favore il nuovo ruolo assunto dagli «esperti monetari» e l’adozione di una strada che privilegiava «il permanente plebiscito dei mercati mondiali» rispetto al «plebiscito delle urne».




È evidente che, in questo caso, così come in quello dei ricatti esercitati dalle multinazionali sulla localizzazione dei loro investimenti (o abbassi le tasse alle imprese о sposto la fabbrica da un’altra parte, о in Germania i lavoratori accettano di lavorare di più a parità di salario о trasferiamo gli stabilimenti in Ungheria), siamo di fronte alla sottrazione sistematica di decisioni fondamentali dall’ambito della discussione pubblica per lasciarle ai «mercati» (cioè allo scontro tra capitali in competizione). Il fatto che oggi si consideri normale e si dia per scontata questa sottrazione - sino al punto di ridurre lo Stato a semplice garante della «libertà dei mercati» -rappresenta la migliore fotografia dello stato in cui versa la democrazia nei nostri paesi.




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